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Libro SCIENZE - Gruppo base
Grammatica
Introduzione
Disciplina che studia le regole fonetiche, ortografiche, morfologiche, lessicali e sintattiche di una
lingua, e si è originata dopo la nascita della scrittura.
La parola latina grammatica riproduce quella greca grammatiké (sottinteso téchne) e deriva dall'aggettivo
grammatikòs, "che concerne l'arte del leggere e dello scrivere", da gràmma, gràmmatos "lettera della
scrittura", che ha la medesima radice dal verbo gràphein "scrivere".
L'opera grammaticale greca più antica pervenutaci è l'Ars grammatica attribuita a Dionisio Trace, alla
quale risale la tradizione grammaticale che, attraverso le opere latine e medievali, si è perpetuata
fino a tempi recenti.
Normativa
Grammatica tradizionale e finalizzata all'insegnamento, che espone le forme che si fondano sul modello
di lingua che viene proposto dalle persone colte e dalla scuola. Viene intesa come l'insieme di tutte
quelle norme che regolano l'uso di una lingua e il suo scopo è quello di fornire elenchi di forme,
di dettare regole e correggere errori.
In senso popolare quindi la grammatica è l'arte di parlare e di scrivere senza errori.
Descrittiva
Che descrive fenomeni linguistici e non imporre una norma.
Tali grammatiche possono:
- descrivere uno stato della lingua o di un dialetto come agisce in sincronia, ovvero in un momento
storico determinato (p. es. la grammatica dell'italiano di oggi, la grammatica del fiorentino del
Trecento, la grammatica del dialetto genovese) e pertanto non dà giudizi di valore perché si attiene
solamente alla descrizione dei fatti linguistici, inglobando anche le costruzioni della lingua parlata
(che la grammatica normativa difficilmente prende in considerazione);
- studiare l'origine e la storia di una lingua diacronicamente (come la grammatica storica, che è parte
della linguistica storica);
- stabilire corrispondenze fra più lingue, creando così dei rapporti genealogici, come ad esempio la
grammatica comparata delle lingue indoeuropee e altre grammatiche comparate (ramo della linguistica
comparativa);
- studiare leggi generali comuni a tutte le lingue (grammatica universale, grammatica generativa,
grammatica trasformazionale).
Ultima modifica 30-08-2011
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Etimologia
Studia l'origine e la storia delle parole.
Viene dal greco ètymon = "vero, reale, intimo significato della parola" e lògos = "studio, discorso".
Nel VII secolo d.C., Isidoro di Siviglia scrisse un trattato enciclopedico in venti volumi, intitolato Etymologiae.
Il testo, che non si limita all'etimologia delle parole, ma, prendendo spunto da queste, spazia su vari
argomenti, fu usato per tutto il Medioevo e oltre, fino al Cinquecento.
Ebbe una particolare rilevanza in India, dove era conosciuta fin dall'antichità con il nome di nirukta
(una delle sei discipline accessorie allo studio dei Veda, insieme alla metrica, alla grammatica,
alla fonetica ecc.).
Compaiono in questo periodo veri e propri dizionari etimologici, come
- Etymologicum linguae Latinae dell'olandese Gerard Vossius (1662)
- Etymologicon Linguae Anglicanae dell'inglese Stephen Skinner (1671).
Per l'italiano, citiamo tra i primi il:
Dizionario etimologico di tutti i vocaboli usati nelle scienze, arti e mestieri che traggono origine dal
greco di Aquilino Bonavilla (1819-1821),
il Dizionario etimologico-scientifico di G.Sandri (1819),
il Dizionario tecnico-etimologico-filologico di M.A.Marchi (1828).
Tabella comparativa
Latino | Greco | Tedesco | Inglese | Italiano |
-plex | -plax | -faltig | -fold | -plice |
-plus | -ploos/-plasios | -fach | [-ple] | -plo |
multi- | polla- | mannig- | mani- | molte- |
sim- | ha- | - | - | sem- |
multiplex, multiplus | -, pollaploos/pollaplasios | mannigfaltig, mannigfach |
manifold | molteplice, multiplo |
multiplicitas | - | Mannigfaltigkeit | manifold(ness) | molteplicità |
simplex, simplus | -, haploos | einfach | [simple] | semplice |
duplex, duplus | diplax, diploos/diplasios | zweifach | twofold, [double] |
duplice, doppio |
triplex, triplus | triplax, triploos/triplasios | dreifach | treefold, [triple] |
triplice, triplo |
quadruplex, quadruplus | -, tetraploos/tetraplasios | vierfach | fourfold, [quadruple] |
quadruplice, quadruplo |
quintuplex, quintuplus | -, pentaploos/pentaplasios | fünffach | fivefold, [quintuple] |
quintuplice, quintuplo |
... | ... | ... | ... | ... |
(Wikipedia)
etimo.it
Ultima modifica 06-09-2011
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linguaggio
Linguaggio comune e regole grammaticali
"In molti casi la norma linguistica non è netta: spesso non si tratta di definire la correttezza
o meno di fenomeno linguistico, quanto piuttosto di circoscriverne gli ambiti d'uso.
In altre parole, molti fenomeni linguistici non possono venire condannati o promossi
in toto: è necessario imparare a usarli nel giusto contesto, nella corretta situazione linguistica.
Bisogna scegliere il registro (cioè la tipologia di linguaggio: formale, semi-formale, informale),
più adatto alla situazione comunicativa.
Da almeno una ventina di anni si parla, nella linguistica, e in particolare nella sociolinguistica,
dell'affermarsi di una nuova varietà dell'italiano, definita italiano neostandard (definizione del
linguista Gaetano Berruto 1987) oppure italiano dell'uso medio (secondo la definizione di Francesco
Sabatini 1985).
"L'italiano dell'uso medio è sia orale sia scritto (purché questo non sia formale),
ma prevalentemente orale; in concreto, ciò vuol dire che mentre tutti i suoi fenomeni distintivi
sono presenti nell'orale, non tutti lo sono nello scritto [...].
La differenza dallo standard [considerando come standard l'italiano formale, più attento a rispettare
la norma linguistica] sta soprattutto nel fatto che l'italiano dell'uso medio accoglie in sé tratti
del parlato che a loro volta spesso coincidono con fenomeni attestati anticamente nell'italiano scritto,
prima che la norma classicistica li escludesse (o li confinasse nell'italiano popolare o ai dialetti)
e nonostante questa sopravvissuti [...]" (Mengaldo 1994: 94).
Sostanzialmente, nel momento in cui l'italiano, da lingua letteraria, è diventato patrimonio (più o meno)
comune di tutti gli italiani, ha iniziato cioè a venire impiegato nell'uso vivo della quotidianità,
ha subito delle evoluzioni più veloci di quanto abbia fatto la norma linguistica.
Questo ha portato, in alcuni casi, a uno "scollamento" fra l'uso e la norma: i parlanti, anche colti,
possono talvolta ricorrere a usi linguistici che le grammatiche indicano, o indicavano, normalmente
come errati."
(www.accademiadellacrusca.it)
Ultima modifica 26-12-2012
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Complemento
Parola che serve a determinare il senso di altri termini della frase.
Si distinguono in:
- complemento oggetto: esprime il termine dell'azione indicata da un verbo transitivo e che si unisce
ad esso senza nessuna preposizione (complemento diretto);
- complementi indiretti: si uniscono al verbo per mezzo di preposizioni o locuzioni prepositive;
fanno eccezione alcuni complementi di tempo: ho dormito otto ore. Sono costituiti da sostantivi
(foglio di carta), da aggettivi sostantivati (vestire all'americana), da infiniti sostantivati
(darsi al bere) e da pronomi (parlami di ciò).
Concessiva
Proposizione concessiva (o concessiva s.f.), proposizione subordinata che indica
una circostanza nonostante la quale avviene il fatto espresso dalla principale.
Le concessive possono essere introdotte dalle congiunzioni o locuzioni congiuntive:
ancorché, benché, sebbene, quantunque, malgrado, nonostante che, anche se, ecc.
o da pronomi indefiniti qualunque, checché, ecc.
Il modo di tali proposizioni è di norma il congiuntivo: verrò, sebbene sia tardi.
A volte si usa l'indicativo: gli ho salvato la vita, benché fu inutile.
Anche proposizioni relative possono avere valore concessivo: il giovane, che pure aveva studiato,
è stato bocciato.
Frequente è l'uso di concessive implicite introdotte da pure seguito da un gerundio:
pur avendolo visto, non l'ho riconosciuto.
Consecutiva
Proposizione consecutiva (o consecutiva, femminile), proposizione dipendente che esprime una
conseguenza di quanto è espresso dalla proposizione reggente.
Elisione
Nell'ortografia italiana l'elisione, a differenza del troncamento, viene indicata dall'apostrofo.
L'elisione è comune nella lingua parlata, mentre nella lingua scritta è limitata.
Negli articoli, lo, la, una e le preposizioni articolate da essi formate: l'occhio, un'anima,
all'antica.
Con l'articolo le e le relative preposizioni articolate l'elisione è di uso antico e poetico.
Con gli è ammessa solo quando la parola successiva inizia con i: gl'istinti, gli uomini.
Con le particelle pronominali e avverbiali: mi, ti, si, vi, ne, la, lo, ecc.: m'ha scritto, v'era gente.
Con la preposizione di: d'argento.
Con le congiunzioni che e se.
Con gli aggettivi bello e talvolta grande (bell'uomo, grand'amico).
Articolo
Si distingue soprattutto tra due tipi: indeterminativi e determinativi.
I primi servono ad indicare un elemento generico di un insieme, i secondi ad indicare un elemento
specifico di un insieme.
Gli indeterminativi hanno inoltre la proprietà di introdurre un'informazione nuova (ho visto un
cerbiatto), mentre quelli determinativi ne indicano una già data (purtroppo il cerbiatto è già sparito).
Articolo indeterminativo
maschile singolare: un, uno (davanti a parole che iniziano per z, gn, x, ps o s impura, cioè s seguita da
una consonante)
femminile singolare: una, un' (davanti a parole che iniziano per vocale)
Non esiste una forma plurale vera e propria; per essa si ricorre all'articolo partitivo maschile (degli)
o femminile (delle).
Articolo determinativo
maschile singolare: il, lo (davanti a parole che iniziano per z, gn, x, pn, ps, o s impura;
eliso in l' davanti a parole che iniziano per vocale)
femminile singolare: la (eliso in l' davanti a parole che iniziano per vocale)
maschile plurale: i, gli (davanti a parole che iniziano per z,x, gn, ps, s impura o vocale)
femminile plurale: le
L'elisione di gli davanti a parola che inizia per i, e di le davanti a parola che inizi per e
("gl'individui", "l'erbe") è ormai considerata arcaica. Viceversa, nel linguaggio burocratico e in genere
in quello letterario si tende a non elidere la davanti a vocale: "la espressione".
La scelta dell'articolo è effettuata in base al suono iniziale del nome della parola immediatamente
successiva, anche se questa non è il sostantivo cui si riferisce, ma un'altra parte del discorso.
La varietà di forme di articoli in italiano è data dalle caratteristiche di questa lingua, che più di
altre tende ad evitare il formarsi di gruppi consonantici e vocalici, per preferire invece una struttura
alternata (consonante-vocale-consonante).
Alcuni esempi:
la nostra amica ; l'amica
il bello specchio ; lo specchio
lo strano comportamento ; il comportamento
i piccoli gnomi ; gli gnomi
gli stessi problemi ; i problemi
uno stupido inconveniente ; un inconveniente
il quasi spento zolfo ; lo (spento) zolfo
il suo zaino ; lo zaino
Alle diverse forme di articolo determinativo corrispondono altrettante varianti dell'aggettivo dimostrativo
quello: quello specchio, quel comportamento, eccetera.
Nome ed aggettivo
In italiano, l'ordine tra l'aggettivo e il sostantivo non è fisso, tuttavia la tendenza è quella di mettere
l'aggettivo dopo il nome se questo indica una qualità che caratterizza una cosa rispetto ad altre.
Alcune categorie di aggettivi hanno però un ordine fisso: i colori e le nazionalità seguono sempre il nome,
mentre gli aggettivi possessivi sono posti quasi sempre prima del nome (tranne che per motivi di enfasi).
Quando c'è possibilità di scelta, si mette al secondo posto l'aggettivo se gli si vuole una funzione
distintiva: una bella casa (aggettivo caratterizza),
una casa bella (l'aggettivo ha la funzione di distinguere la casa rispetto ad altre).
A parità di genere, gli aggettivi e i sostantivi seguono le stesse regole generali per la formazione del
numero.
Ovviamente, andando più in dettaglio ci sono delle differenze, ma in linea di massima tali regole possono
essere riassunte come segue:
Tabella riassuntiva delle desinenze di nomi ed aggettivi
Genere | Singolare | Plurale | Esempio |
Maschile | -o | -i | il capello nero, i capelli neri |
Femminile | -a | -e | la bella macchina, le belle macchine |
Maschile e femminile | -e | -i | il/la comandante intelligente, i/le comandanti intelligenti |
Nomi maschili e femminili che terminano per vocale: il/la manager trendy, i/le manager trendy
accentata: l'università, le università
nomi ed aggettivi stranieri non italianizzati: il momento clou, i momenti clou
Sostantivo
Ciascun sostantivo o nome in lingua italiana ha un genere (maschile o femminile) e un numero
(singolare o plurale). Mancano generi come il neutro e numeri come il duale.
Manca, in italiano, anche la declinazione secondo i casi come nel latino.
I significati che altre lingue rendono con la declinazione (caso), in italiano sono resi tramite
preposizioni.
Sostantivi privi della forma singolare o della forma plurale vengono detti difettivi
(ad esempio: "le nozze").
Sono detti invariabili quelli le cui forme singolare e plurale sono identiche.
Le principali desinenze dei nomi sono le seguenti:
maschili in -o, plurale in -i: libro, libri (per lo più parole maschile della seconda o della quarta
declinazione latina)
maschili in -e, plurale in -i: fiore, fiori (per lo più parole maschile della terza declinazione latina)
femminili in -a, plurale in -e: scala, scale (per lo più parole femminile della prima declinazione latina)
femminili in -e, plurale in -i: luce, luci (per lo più parole femminile della terza o della quinta
declinazione latina)
Tra le varie forme che si comportano altrimenti, si ricordano quelle maschili in -a, con plurale in -i:
poeta, poeti
(per lo più parole maschile della prima declinazione latina).
Sono invariabili in italiano i sostantivi che terminano in vocale accentata e quelli di una sola sillaba
(la virtù / le virtù, il re / i re), i sostantivi (quasi tutti di origine straniera) che terminano in
consonante (il bar / i bar), i sostantivi che terminano in -i non accentata (il bikini / i bikini,
la crisi / le crisi), e diversi altri.
Generalmente, il genere del sostantivo non è determinato dal suo significato.
Fanno eccezione a questa regola soprattutto i nomi di persona:
Francesco, Francesca
Il ragazzino, la ragazzina
Il presidente, la presidente (presidentessa)
Aggettivo
Gli aggettivi sono le parti del discorso che servono a modificare in qualche modo il significato di un
sostantivo.
Aggettivi qualificativi
L'aggettivo più comune è quello qualificativo, il quale serve a definire la qualità di una cosa
o persona.
In italiano, gli aggettivi hanno due generi (maschile e femminile) e due numeri (singolare e plurale).
Concordano per genere e numero col sostantivo a cui si riferiscono.
Le desinenze più frequenti, molto somiglianti a quelle dei sostantivi, sono raggruppabili in due classi
(derivate direttamente dalle due classi di aggettivi latini):
Classe | genere | desinenza singolare | desinenza plurale |
1a | maschile | -o (rosso) | -i (rossi) |
1a | femminile | -a (rossa) | -e (rosse) |
2a | maschile / femminile | -e (verde) | -i (verdi) |
Esistono anche aggettivi invariabili che cioè non variano per genere e numero, come ad esempio alcuni
aggettivi di colore (la penna rosa - le penne rosa - il pastello rosa - i pastelli rosa; idem per "blu"),
e le parole straniere (atteggiamento dandy - un gruppo di persone dandy).
Valgono in linea di massima le stesse irregolarità che si riscontrano tra i sostantivi.
Aggettivi possessivi
persona | maschile singolare | femminile singolare | maschile plurale | femminile plurale |
1a singolare | mio | mia | miei | mie |
2a singolare | tuo | tua | tuoi | tue |
3a singolare | suo, proprio(1) | sua, propria(1) | suoi, propri(1) | sue, proprie(1) |
1a plurale | nostro | nostra | nostri | nostre |
2a plurale | vostro | vostra | vostri | vostre |
3a plurale | loro, proprio (1) | loro, propria (1) | loro, propri (1) | loro, proprie (1) |
(1) forma riflessiva alternativa
La 3a persona singolare è anche quella usata nelle forme di cortesia, talvolta scritta usando l'iniziale
maiuscola: le consegno il Suo pacco.
A differenza di quanto accade in altre lingue, in italiano l'aggettivo possessivo è normalmente
accompagnato da un articolo; tale articolo manca, invece, laddove mancherebbe anche in assenza del
possessivo (è sua abitudine corrisponde quindi a è abitudine di X;
diversamente, è la sua abitudine corrisponde a è l'abitudine di X)
L’articolo si omette davanti ai nomi di parentela preceduti da un aggettivo possessivo che non sia loro:
(mio padre, tua madre, suo fratello, nostra zia, vostro nipote, ma: il loro padre, la loro madre ecc.).
Vi sono però alcuni nomi di parentela che ammettono l’articolo, come per esempio mamma e papà, che
vengono considerati come vezzeggiativi; inoltre, l’articolo si usa quando i nomi di parentela sono al
plurale (le mie sorelle), o sono accompagnati da un attributo (la mia cara moglie), oppure se vengono
seguiti dal possessivo (è colpa tua).
Non hanno l’articolo alcuni appellativi onorifici quando sono preceduti da forme di cortesia come sua
e vostro (-a): Sua Eccellenza, Sua Maestà, Sua Santità, Vostro Onore, Vostra Altezza, Vostra Signoria...
Aggettivo dimostrativo
Indicano la posizione di una persona o di una cosa nello spazio, nel tempo o nel discorso, rispetto
a chi parla o a chi ascolta.
Ciò che viene indicato è quindi riconoscibile a partire dal contesto (vedi deissi).
I dimostrativi principali sono questo, codesto e quello, variabili nel genere e nel numero.
Singolare | Plurale |
Maschile | Femminile | Maschile | Femminile |
questo | questa | questi | queste |
codesto | codesta | codesti | codeste |
taluno | taluna | | |
quello, quell', quel | quella, quell' | quei, quegli | quelle |
Vengono usati in italiano soprattutto questo e quello.
Come messo in evidenza nella tabella, quello si adatta per forma alla parola che segue, similmente
all'articolo: quello stupido, ma quell'armadio, quel bambino, quei bambini, quegli zoo.
Differisce quindi per forma dal pronome dimostrativo corrispondente (mi piace quello, mi piacciono quelli).
Le forme aferetiche di questo, 'sto, 'sta, 'sti e 'ste (scritte anche senza apostrofo iniziale), sono da
tempo diffuse tra tutti i parlanti ma restano perlopiù legate alla lingua parlata.
In riferimento allo spazio
questo (-a, -i, -e) indica qualcuno o qualcosa vicino a chi parla: Ho letto questo libro;
codesto (-a, -i, -e) indica qualcuno o qualcosa vicino a chi ascolta: Mi passi codesta tazza?
quello (-a, quei, quelle) indica qualcuno o qualcosa lontano da chi parla e da chi ascolta:
Guarda quell'aquila che plana nell'azzurro.
In riferimento allo spazio gli aggettivi e i pronomi dimostrativi questo e quello possono essere
rafforzati dagli avverbi qui/qua e lì/là; si tratta di francesismi oramai diffusi nella lingua comune.
Ora sto andando in quel negozio lì.
Questo qui è proprio il libro che volevo comprarmi.
La differenza tra questo e quello ricalca quindi quella che ritroviamo tra qui e lì.
Oggigiorno viene usato codesto nel parlato in Toscana oppure, spesso, in modo sbagliato, per dare al
discorso un'impronta aulica o come toscanismo arcaico, in sostituzione di questo o quello mentre
correttamente dovrebbe essere usato in contrapposizione e soltanto quando l'oggetto del discorso è vicino
o in prossimità di colui a cui si sta parlando. Il termine codesto, di uso toscano, viene usato soprattutto
in italiano letterario.
Da una parte, è vero che il toscano non è l'unico dialetto a conoscere tre forme di aggettivo dimostrativo,
dato che anche in diverse varietà dell'Italia del sud si distingue tra i tipi chisto, chisso e chillo
(questo, codesto, quello) e nell'Italia centrale (il maceratese "quistu", "quissu" e "quillu").
Comunque, il tipo di deissi dell'italiano standard usato correntemente si basa solo sull'opposizione tra
"vicino" e "lontano".
Alcuni esempi per codesto:
Allora leggiamolo codesto bigliettino. Cosa tergiversi? (Il bigliettino è nelle mani della moglie del
Necchi; Amici miei atto II).
"E tu che se' costì, anima viva, pàrtiti da cotesti che son morti" Caronte che si rivolge a Dante
Alighieri, Inferno, Divina Commedia.
È mai possibile o porco di un cane
che le avventure in codesto reame
debban risolversi tutte con grandi puttane.
Fabrizio De André (da Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, n.° 10) - Impiego improprio,
motivato da necessità stilistiche particolari.
In riferimento al tempo
questo indica che il tempo cui si riferisce è vicino: Ricorderò a lungo questo giorno;
quello indica che il tempo cui si riferisce è lontano: A quei tempi tutto era difficile
In riferimento al discorso
questo indica qualcosa di cui si sta per parlare o di cui si è parlato da poco: Ascolta questi consigli...
quello richiama, invece, qualcosa che è stato già detto: Quelle parole mi sono rimaste in mente
Stesso, medesimo, tale
Tra gli aggettivi dimostrativi, di solito, vengono inseriti anche stesso e medesimo, che sono più
propriamente detti aggettivi identificativi.
Essi indicano identità o uguaglianza tra persone animali o cose. Hanno il significato di uguale,
identico:
Frequentiamo gli stessi (= identici) amici.
Marco racconta sempre le medesime (= identiche) barzellette.
A volte stesso e medesimo vengono utilizzati per rafforzare il nome cui si riferiscono e significano
perfino, proprio lui in persona:
Io stesso (= perfino io) sono rimasto sorpreso.
L'allenatore stesso (= l'allenatore in persona) si è congratulato con me.
Anche tale può essere considerato aggettivo dimostrativo, quando è usato con il significato di così grande,
così importante; esso sostituisce sempre più spesso altri aggettivi dimostrativi, quali: simile, siffatto,
cosiffatto, altrettale, cotale...
Tale ha un sola forma per il singolare (tale, tal) e una per il plurale (tali), senza distinzioni
di genere:
Tali (= così grandi) errori sono inaccettabili.
Tale (= simile) atteggiamento è riprovevole.
Funzione dell'articolo determinativo
L'articolo determinativo può avere funzione di aggettivo dimostrativo:
Entro l'anno (= quest'anno) finirà la crisi.
Non conosco il tipo (= questo tipo).
Aggettivo indefinito
Possono indicare le seguenti cose:
- un'unità indefinita: nessuno\a, ciascuno\a, ogni, qualunque, qualsiasi, qualsivoglia;
- una pluralità indefinita: alcuno\a, alcuni\e, qualche;
- un'unità indefinita (al singolare) o una pluralità indefinita (al plurale): certo, taluno, tale;
- una quantità indefinita: molto, troppo, tanto, alquanto, altrettanto, vario, diverso, parecchio,
poco, tutto, altro, cadauno.
Gli aggettivi indefiniti, in genere, rifiutano l'articolo; lo ammettono: poco, molto, tanto, troppo
e altro: la poca voglia, i molti difetti.
Ogni, qualche, qualunque, qualsiasi, qualsivoglia sono invariabili e sono usati solo al singolare:
Viene a trovarci ogni domenica; portaci qualche fiore; può arrivare in qualunque momento.
Certo, diverso e vario sono aggettivi indefiniti se posti prima del nome; dopo il nome, invece, sono
aggettivi qualificativi.
In certi (=tali - indefinito) casi non si sa che fare;
queste non sono notizie certe (=sicure - qualificativo);
ho diversi (=molti, parecchi - indefinito) programmi;
abbiamo programmi diversi (=differenti - qualificativo);
varie (=parecchie, molteplici - indefinito) persone seguivano il corteo;
è spesso di umore vario (=mutevole - qualificativo).
Tale usato prevalentemente come dimostrativo, viene considerato indefinito quando significa un certo,
uno tra tanti...:
Ti vuole un tale Paolo.
Altro può assumere parecchi significati:
diverso (Vorrei vivere in un'altra città), precedente (L'altro quadrimestre i suoi risultati sono stati
migliori), seguente (Quest'altr'anno andremo negli U.S.A.), nuovo (Pensa di essere un altro Michelangelo),
di ripetizione (Devo tornare un'altra volta), di aggiunta (Mi occorre altro denaro);
ha valore dimostrativo quando significa quello: Dammi l'altro (=quel) vestito.
Nessuno ha generalmente un significato negativo.
Quando è posto prima del verbo, non richiede altra negazione: Nessun dubbio ci attanaglia;
quando invece è collocato dopo il verbo, richiede sempre la negazione non e può essere sostituito da
alcuno: non è uscita nessuna (= alcuna) persona; non ho nessun (= alcun) dubbio.
Molto, poco e tanto sono gli unici aggettivi (oltre ai qualificativi) che possono essere espressi anche
al grado comparativo o superlativo:
molto ha il comparativo più e il superlativo moltissimo:
Ho più penne di te; Ho moltissime penne;
poco ha il comparativo meno e il superlativo pochissimo:
Ho meno forza di te; Ho pochissima forza;
tanto ha il superlativo tantissimo:
Abbiamo visto tantissime marmotte.
Ovviamente, essi non vanno mai da soli, ma devono accompagnare un nome.
Taluno si usa per lo più al plurale, con significato analogo ad alcuno e certo; è proprio del registro
formale: in taluni casi è prevista la pena all'ergastolo.
Aggettivo interrogativo ed esclamativo
Introducono una domanda sulla qualità, la quantità o l'identità dei nomi a cui si riferiscono.
Essi si usano sempre prima del nome e non sono mai preceduti dall'articolo.
Gli aggettivi interrogativi possono essere usati sia in domande dirette sia in domande indirette:
Che film hai visto? (= interrogativa diretta)
Quale attore preferisci? (= interrogativa diretta)
Quante volte vai al cinema? (= interrogativa diretta)
Dimmi che lavoro intendi svolgere (= interrogativa indiretta)
Dimmi in quale città abiti (= interrogativa indiretta)
Dimmi quanto tempo pensi di restare. (= interrogativa indiretta)
Gli aggettivi che, quale e quanto, usati nelle interrogative sopra proposte, possono anche introdurre
un'esclamazione. In questo caso sono detti aggettivi esclamativi:
Che splendido panorama!
Quale meraviglia questo tramonto!
Quanti parenti sono venuti a salutarci!
Gli aggettivi interrogativi ed esclamativi, dunque, hanno forma identica; cambia soltanto la loro
funzione.
Per quanto riguarda la forma:
- che: è variabile ed equivale a quale, quanto: Che colpa ho? Che rumore!
- quale: è variabile solo nel numero (quali) e indica l'identità o la qualità del nome cui si riferisce:
In quale città ti piacerebbe vivere? Quali sorprese ci aspettavano!
- quanto (-a, -i, -e): è variabile in genere e numero e riguarda la quantità del nome cui si riferisce:
Quanta farina serve? Quanti caffè bevi in un giorno!
Aggettivo numerale
Accompagnano nomi ed hanno, in questo caso, una funzione di aggettivi.
Hanno caratteristiche che li distinguono sia dagli aggettivi che dai sostantivi, e per questo i linguisti
tendono a classificarli come una parte del discorso a sé.
Benché in italiano essi abbiano molto in comune con gli aggettivi, ne differiscono morfologicamente perché
sono invariabili (ad eccezione di "uno") e sintatticamente perché si collocano sempre prima del nome che
accompagnano.
Gli aggettivi numerali cardinali indicano in modo preciso e assoluto la quantità numerica delle cose
di cui si parla.
Sono chiamati così perché costituiscono il cardine della numerazione.
Essi sono invariabili, ad eccezione di uno, che al femminile assume la forma una, e di mille, che al
plurale diventa -mila.
I numerali cardinali si possono adoperare come veri e propri sostantivi:
È l'una e tutto va bene! (indica l'ora);
Cesare fu assassinato nel quarantaquattro a.C. (indica l'anno).
Gli aggettivi numerali ordinali sono chiamati così perché indicano la posizione (l'ordine) che una persona
o una cosa occupano in una successione numerica.
Essi si comportano come i normali aggettivi variabili nel genere e nel numero, quindi si accordano
morfologicamente col nome cui si riferiscono:
la terza età, il quarto potere.
Anche gli ordinali possono avere la forma sostantivata:
È stato promosso in terza.
Altri numerali:
doppio, triplo, quadruplo...
duplice, triplice, quadruplice...
mezzo litro, mezza pera;
paio, coppia, duo, trio, terzetto, decina, dozzina, ventina, trentina, centinaio, migliaio …
Ultima modifica 28-11-2012
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Pronome
Il pronome sostituisce un sostantivo quando si preferisce evitare una ripetizione nella frase.
Inoltre, può indicare un oggetto o una persona facilmente identificabile nel contesto (ad esempio, io).
In tal caso, la funzione del pronome è deittica.
Pronomi personali
I più noti sono i pronomi personali come soggetto (io, tu, egli ecc.); i pronomi personali complemento
si dividono in atoni (Mi piace questa musica) e tonici (A me piace questa musica).
I pronomi atoni sono strettamente legati al verbo e vengono generalmente anteposti ad esso (mi piace)
come clitici. Del resto, senza verbo non vengono mai usati. I pronomi tonici (me) hanno invece una
posizione più libera all'interno della frase e possono essere combinati ad una preposizione.
Per quanto riguarda la differenza di significato tra pronome atono e tonico, possiamo notare come 'regalo
a te un libro' oppure 'a te regalo un libro' concentrano l'enfasi sul complemento rispetto a quanto
avviene nella struttura più frequente, ottenuta con l'uso del pronome atono (ti regalo un libro).
persona | soggetto | complemento oggetto (forma tonica) | complemento oggetto (forma atona) | complemento di termine (forma atona) | combinazione (1) |
1a singolare | io | me | mi | mi | me lo |
2a singolare | tu | te | ti | ti | te lo |
3a singolare maschile | egli, lui (2) esso (3) | lui, sé (4) | lo, si (4) | gli, si (4) | glielo, se lo(4) |
3a singolare femminile | ella, lei (2) essa (3) | lei, sé (4) | la, si (4) | le, si (4) | glielo , se lo(4) |
1a plurale | noi | noi | ci | ci | ce lo |
2a plurale | voi | voi | vi | vi | ve lo |
3a plurale maschile | essi, loro (2) | loro, sé (4) | li, si (4) | gli (2), si (4) | glielo (2), se lo(4) |
3a plurale femminile | esse, loro(2) | loro, sé (4) | le, si (4) | gli (2), si (4) | glielo (2), se lo(4) |
(1) La forma combinata prevede prima la forma del complemento di termine, e poi quella del complemento
oggetto, accordata per numero e genere: me lo, me la, me li, me le; te lo, te la, te li, te le eccetera.
Si ricorda inoltre che il pronome impersonale si, insieme a quello riflessivo, dà ci si:
ci si vede domani, va bene?
(2) forma comunemente usata nella lingua parlata
(3) usato per soggetti inanimati
(4) forma riflessiva: cfr "lo vede" = vede un altro / "si vede" = vede se stesso/a
In italiano la forma di cortesia è la 3a persona femminile, scritta talvolta con l'iniziale maiuscola;
Lei, Loro: la forma al plurale, usata in contesti molto formali, viene generalmente sostituita dalla
vecchia forma Voi.
A differenza di quanto accade in molte altre lingue (come ad esempio nel francese e nell'inglese) il
pronome personale soggetto in italiano è facoltativo e viene normalmente omesso.
Viene espresso esplicitamente quando si desidera enfatizzare il soggetto o quando occorre risolvere
ambiguità davanti a voci verbali identiche (ad esempio, tra le tre persone singolari del congiuntivo
presente).
Il francese e l'inglese hanno invece bisogno che il pronome venga specificato, dato che le forme verbali
coniugate a seconda delle diverse persone presentano forti somiglianze tra di loro.
Pronome dimostrativo
Per le cose e le persone sono questo, codesto, quello; solo per le cose ciò.
I primi tre possono essere rafforzati: questa qui è mia sorella.
Solo fra le persone sono usati:
questi, costui (femminile costei, plurale costoro),
quegli, colui (femminile colei, plurale coloro).
Pronome indefinito
'Ne', con significato sia singolare che plurale, essendo un pronome si riferisce a persone o cose di cui
si è già parlato: adoro il risotto! Ne cucinerò un piatto!
Pronome interrogativo
Pronome esclamativo
Pronome possessivo
Pronome relativo
Uso di gli per a lui, a loro e a lei
La preposizione
Le preposizioni sono una parte del discorso che serve a chiarire la natura di un complemento nella frase
semplice o, talvolta, di una subordinata all'interno del periodo. Sono normalmente considerate come
preposizioni in italiano di, a, da, in, con, su, per, tra, fra; anche degli avverbi come sopra e sotto
possono fare da preposizioni in alcuni casi.
Le preposizioni possono anche essere unite agli articoli determinativi, e formare le preposizioni articolate
(le altre si dicono anche semplici). Non tutte le combinazioni tra preposizione e articolo sono ammesse,
come si può vedere dalla tabella sottostante:
| il | lo | la | i | gli | le |
di | del | dello | della | dei | degli | delle |
a | al | allo | alla | ai | agli | alle |
da | dal | dallo | dalla | dai | dagli | dalle |
in | nel | nello | nella | nei | negli | nelle |
con | col | collo | colla | coi | cogli | colle |
su | sul | sullo | sulla | sui | sugli | sulle |
per | pel | | | pei | | |
Collo, colla, cogli e colle sono di uso raro.
Combinazioni come pel, pei, frai e simili non sono più in uso dalla prima metà del 1900; anche l'uso delle
preposizioni articolate formate da con e articolo è desueto e considerato dai più un errore.
La congiunzione
Le congiunzioni uniscono tra di loro due parti di una stessa proposizione (io e te), oppure due frasi
(vado e torno), spesso la frase principale e la subordinata.
Si tratta di parti invariabili del discorso, come anche gli avverbi.
L'interiezione
Le interiezioni, che denotano l'espressione affettiva del parlante nel contesto, sono parti invariabili
del discorso che spesso variano per sfumature di significato, e che non svolgono un particolare ruolo
nel costrutto della frase (ah, oh, ahi, ehi...). Spesso sono derivate da altre parti del discorso
(povero me!)
(Wikipedia)
Vedi Noam Chomsky, grammatica generativa
Ultima modifica 28-11-2012
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Avverbio
Gli avverbi hanno la stessa funzione degli aggettivi ma non si riferiscono ai nomi.
Sono legati primariamente ai verbi (di qui il loro nome), ma possono riferirsi anche ad un aggettivo oppure
ad un altro avverbio.
Gli avverbi sono invariabili rispetto al genere ed al numero: (esempi: presto, prima, male).
Molti avverbi vengono derivati dagli aggettivi (strano > stranamente).
Altri costituiscono parole a sé stanti (presto, qui, adesso, avanti, poco, forse).
Alcuni avverbi hanno la stessa funzione sintattica delle preposizioni:
durante la cena; davanti all'automobile; prima di pranzo.
Verbi
Parte del discorso che indica un'azione o uno stato in rapporto a un soggetto.
I verbi italiani possono derivare da sostantivi (ragionare da ragione) o da verbi (legucchiare
da leggere) e sono detti rispettivamente denominativi e verbali.
Gli elementi di formazione dei temi verbali hanno diversi valori: verbi causali, iterativi,
incoativi, intensivi.
Il verbo varia a seconda del numero, della persona, del modo e del tempo.
In ogni forma verbale si può ravvisare una radice e una desinenza; in base alla desinenza
dell'infinito presente si possono distinguere tre coniugazioni.
I verbi possono anche essere distinti in transitivi, pronominali, riflessivi, impersonali.
Infine è possibile un'ulteriore distinzione in verbi regolari, irregolari e difettivi.
Il verbo si accorda in persona e numero al soggetto: tu parli, noi parliamo, essi si lodano.
Con più soggetti al singolare il verbo va al plurale: io e lui siamo andati.
Quando i soggetti sono espressi da pronomi di persona, il verbo si mette al plurale e si accorda
alla prima persona se è presente un pronome di prima persona, alla seconda se i pronomi presenti
sono di seconda e terza persona: voi e io andremo a Milano; tu e lui andrete a Roma.
Coi nomi collettivi il verbo può andare sia al singolare, sia al plurale.
Con più soggetti, riassunti da un unico termine, il verbo è singolare.
Singolare è anche quando ciascun termine è preceduto da ogni, ciascuno: ogni gesto, ogni
parola esprimeva rancore.
I verbi in italiano si coniugano per persona (1a, 2a o 3a) e per numero (singolare o plurale) del soggetto,
per tempo (presente, passato, futuro), per modo (indicativo, congiuntivo, condizionale, imperativo,
infinito, gerundio e participio) e talvolta per genere (maschile o femminile) del soggetto o dell'oggetto.
A differenza di altre lingue (ad esempio dell'inglese o del francese) non è obbligatorio porre prima del
verbo il pronome personale soggetto dato che le desinenze tra le diverse persone utilizzate nella
coniugazione solo raramente permettono ambiguità.
I verbi italiani si raggruppano in tre gruppi principali per quanto riguarda la coniugazione.
I tempi possono essere semplici o composti, questi ultimi sono tempi formati da un verbo ausiliare
(coniugato per persona, numero e modo) seguito dal participio passato del verbo.
Ausiliare
Il verbo ausiliare è essere per la maggior parte dei verbi intransitivi.
Il verbo ausiliare è avere nelle frasi attive quando il verbo è transitivo, e per molti verbi intransitivi.
Il verbo ausiliare è essere nelle frasi passive;
può essere sostituito da venire nelle frasi passive (ma solo nei tempi semplici)
viene sostituito da andare nelle frasi passive quando la frase esprime un obbligo od una prescrizione
Infine, l'ausiliare essere si usa per i tempi composti delle frasi al riflessivo.
Nel caso di tempi composti, il participio può essere accordato:
Quando l'ausiliare è essere, con il genere e il numero del soggetto
(es. La cena è stata servita alle otto in punto).
Quando l'ausiliare è avere e il complemento oggetto è costituito da un pronome che precede il verbo, con il
genere e il numero dell'oggetto (es. Giulia le ha viste uscire assieme ieri).
La forma di cortesia è quella della 3a persona singolare; la stessa forma è usata per il pronome impersonale
si.
Modo infinito
L'infinito è la forma del verbo che si trova nei dizionari, e ne distingue l'appartenenza ad una delle
tre coniugazioni a seconda della desinenza:
1a coniugazione: -are
2a coniugazione: -ere
3a coniugazione: -ire
Questo modo è impersonale (non si coniuga per persona o numero).
Ha due tempi:
presente
passato, composto mediante infinito presente dell'ausiliare + participio passato
È usato in forma sostantivata per esprimere l'azione descritta dal verbo: "leggere è bello"
È spesso usato nelle proposizioni subordinate (causali, finali, relative) quando il soggetto è lo stesso
della proposizione principale: "ho corso per arrivare in tempo" = ho corso affinché io arrivassi in tempo
(non usata), ma "ho corso affinché tu arrivassi in tempo".
Si può usare per sostituire una proposizione relativa con un'oggettiva:
"vedo gli uccelli volare" = "vedo gli uccelli che volano"; in tal caso il soggetto della subordinata viene
declinato all'accusativo "vedo lui che vola" = "lo vedo volare".
In tutti questi casi, il tempo utilizzato dipende se si vuole esprimere un'azione contemporanea
(infinito presente) o anteriore (infinito passato) rispetto alla proposizione principale.
Si usa inoltre come alternativa all'imperativo nel dare istruzioni.
Si usa infine, preceduto da non, come negazione della seconda persona singolare dell'imperativo presente.
Modo indicativo
L'indicativo si usa per esprimere condizioni oggettive, stati di fatto, affermazioni.
Prevede quattro tempi semplici:
- presente, usato per un'azione contemporanea isolata o abituale, o per un'intenzione per l'immediato
futuro;
- imperfetto, usato per un'azione in un tempo indeterminato nel passato e considerata durante il corso
del suo svolgimento;
- passato remoto, usato per un'azione in un tempo passato solitamente lontano nel tempo e genericamente
terminata;
- futuro semplice, usato per un'azione spesso situata un futuro generico o comunque come forma che
indica delle supposizioni, anche sul presente;
ciascuno dei quali dà vita ad un tempo composto mediante ausiliare coniugato + participio passato (pp):
e quattro tempi composti:
- passato prossimo (presente+pp), usato per un'azione in un tempo passato e considerata come compiuta
(similmente al passato remoto, ma più usato di quest'ultimo);
- trapassato prossimo (imperfetto+pp), usato per indicare l'anteriorità temporale di un avvenimento
rispetto ad un momento del passato;
- trapassato remoto (passato remoto+pp), usato per un'azione avvenuta in un tempo antecedente ad
un'azione espressa col passato remoto:
- futuro anteriore (futuro semplice+pp), usato per un'azione generica in un tempo futuro antecedente ad
un'azione futura, oppure per indicare una supposizione su un evento già compiuto al momento
dell'enunciazione.
Tempo presente
| -are (es. parl-are) | -ere (es. vend-ere) | -ire (es. dorm-ire / cap-ire*) |
io | -o | -o | -o / -isco |
tu | -i | -i | -i / -isci |
lui, lei | -a | -e | -e / -isce |
noi | -iamo | -iamo | -iamo |
voi | -ate | -ete | -ite |
loro | -ano | -ono | -ono / -iscono |
* I verbi delle terza coniugazione che ammettono, tra radice e desinenza, l'interfisso -isc- vengono detti,
forse impropriamente, verbi incoativi per analogia coi verbi latini che ammettevano il suffisso -sco con,
invece, effettivo valore incoativo, ovvero d'indicare lo stato d'inizio o d'avvio dell'azione suggerita
dalla radice verbale.
Nei verbi italiani che ammettono l'aggiunta di -isc-, tale infisso non ha alcun valore semantico, e non
modifica quindi il significato originario del verbo che rimane sempre lo stesso, anche quando ammette
entrambe le forme con e senza; dire, infatti, io nutro o io nutrisco è assolutamente equivalente, e la
forma io nutrisco non assume affatto il valore incoativo di "io inizio a nutrire", valore che deve essere,
infatti, suggerito attraverso il ricorso di un verbo fraseologico "... inizio a ...".
Tempo imperfetto
| -are (es. parl-are) | -ere (es. vend-ere) | -ire (es. dorm-ire) |
io | -avo | -evo | -ivo |
tu | -avi | -evi | -ivi |
lui, lei | -ava | -eva | -iva |
noi | -avamo | -evamo | -ivamo |
voi | -avate | -evate | -ivate |
loro | -avano | -evano | -ivano |
Tempo passato remoto
| -are (es. parl-are) | -ere (es. vend-ere) | -ire (es. dorm-ire) |
io | -ai | -ei, -etti(1) | -ii |
tu | -asti | -esti | -isti |
lui, lei | -ò | -é, -ette(2) | -ì |
noi | -ammo | -emmo | -immo |
voi | -aste | -este | -iste |
loro | -arono | -erono, -ettero(3) | -irono |
(1) per molti verbi della seconda coniugazione la desinenza è -i, ma cambia la radice del verbo.
(cadere > caddi; scrivere > scrissi; tenere > tenni; etc.)
(2) per molti verbi della seconda coniugazione la desinenza è -e, ma cambia la radice del verbo.
(cadere > cadde; scrivere > scrisse; tenere > tenne; etc.)
(3) per molti verbi della seconda coniugazione la desinenza è -ero, ma cambia la radice del verbo.
(cadere > caddero; scrivere > scrissero; tenere > tennero; etc.)
Tempo futuro semplice
| -are (es. parl-are) | -ere (es. vend-ere) | -ire (es. dorm-ire) |
io | -erò | -(e)rò | -irò |
tu | -erai | -(e)rai | -irai |
lui, lei | -erà | -(e)rà | -irà |
noi | -eremo | -(e)remo | -iremo |
voi | -erete | -(e)rete | -irete |
loro | -eranno | -(e)ranno | -iranno |
Il futuro semplice italiano ha origine da una forma perifrastica del latino volgare, composta
dal presente dell'indicativo habeo, io ho, e dall'infinito del verbo: così amerò deriva da
amare habeo, amare ho.
L'italiano si serve, per esprimere il futuro prossimo, di forme composte dall'infinito preceduto
da forme di essere per, stare per, dovere, essere sul punto di, ecc.: sto per partire.
Spesso il presente indicativo, soprattutto nel linguaggio familiare, sostituisce il futuro semplice,
specialmente ad esprimere certezza, ferma risoluzione: vengo domani.
In italiano, il futuro semplice, oltre al suo impiego normale, può avere anche i seguenti valori:
- di consiglio, ordine, esortazione;
- di attenuazione di una affermazione;
- di possibilità, di eventualità, di supposizione;
- di indignazione (in frasi interrogativo-esclamative).
Il futuro anteriore ha forma composta e si ottiene col futuro semplice dell'ausiliare unito al
participio del verbo: quando arriverà, sarò già uscito.
Modo condizionale
Il condizionale si usa per esprimere eventi e situazioni subordinate a condizioni e a seguito di
proposizioni ipotetiche introdotte da se + congiuntivo.
Ha due tempi: uno semplice, il condizionale presente, e uno composto, il condizionale passato,
formato dal condizionale presente del verbo ausiliare unito al participio passato del verbo;
ad esempio, "io avrei parlato, io sarei caduto".
Modo condizionale (o condizionale s.m.), forma verbale che presenta l'azione come
eventuale o soggetta a una condizione: sarei contento se...
Proposizione condizionale (o condizionale s.f.), proposizione subordinata, introdotta da se,
purché, e simili: se sei d'accordo, verrò con te.
Per estensione, qualsiasi proposizione che contenga l'idea di condizione.
Congiunzione condizionale, congiunzione che introduce una proposizione condizionale,
ad es. come se, qualora.
Il latino non possedeva un condizionale; l'italiano lo ha formato partendo dall'infinito del verbo
seguito dalle voci del passato remoto di avere: sentire+ebbi, sentire+avesti: sentirei, sentiresti, ecc.
Esiste anche una forma oggi non più usata della prima persona del tipo sentirìa, che deriva dall'infinito
seguito da avìa, imperfetto di avere.
Oltre al presente, il condizionale italiano comprende un passato, di forma composta: avrei sentito, ecc.
In generale il condizionale presenta l'azione come sottoposta a determinate condizioni.
Perciò nel periodo ipotetico esso è il modo dell'apodosi quando l'ipotesi presentata nella protasi
sia considerata possibile (mentre se è considerata reale si usa l'indicativo): se venissi anche tu,
mi farebbe piacere; oppure impossibile: se fossi ricco viaggerei molto.
Se l'ipotesi è irreale nel passato, nell'apodosi appare il condizionale passato: se avessi saputo
ciò, te lo avrei riferito.
Il condizionale, sia presente sia passato, può anche esprimere, in proposizioni indipendenti:
- Un desiderio, una intenzione, una affermazione in forma attenuata per riguardo a chi ascolta:
avrei da fare una osservazione; direi quasi che tu lo fai apposta.
- Una enunciazione, una notizia data con riserva: La polizia avrebbe già identificato il
responsabile.
- Dubbio, incertezza: chi lo aiuterebbe?
- Ironia: e questo film sarebbe il più bello della stagione?
In proposizioni dichiarative, dipendenti da una principale al passato, il condizionale passato si
usa col valore del futuro: sapevo che non mi avresti abbandonato.
Tempo presente
| -are (es. parl-are) | -ere (es. vend-ere) | -ire (es. dorm-ire) |
io | -erei | -erei | -irei |
tu | -eresti | -eresti | -iresti |
lui, lei | -erebbe | -erebbe | -irebbe |
noi | -eremmo | -eremmo | -iremmo |
voi | -ereste | -ereste | -ireste |
loro | -erebbero | -erebbero | -irebbero |
Modo congiuntivo
Il congiuntivo si usa solitamente nelle proposizioni subordinate per esprimere ipotesi o dubbi nei casi
in cui la subordinata è retta da congiunzioni quali "che", "se", "perché", "affinché".
Ci sono due forme semplici di tempo:
- presente, usato per un'azione contemporanea ad una espressa dall'indicativo presente o futuro;
- imperfetto, usato per un'azione contemporanea ad una espressa da un tempo passato dall'indicativo,
per un'azione passata ma continuata o non terminata rispetto ad una espressa dall'indicativo presente,
o nel periodo ipotetico dell'irrealtà o impossibilità;
che danno forma a due ulteriori tempi composti con l'ausiliare coniugato e il participio passato:
- passato (presente+pp), usato per un'azione passata e terminata rispetto ad una espressa dall'indicativo
presente o futuro;
- trapassato (imperfetto+pp), usato per un'azione passata rispetto ad una espressa da un tempo passato
dell'indicativo, o nel periodo ipotetico del terzo tipo.
Nei casi in cui il congiuntivo manca, si usa:
- l'indicativo futuro semplice, quando l'azione è futura rispetto ad un'azione presente o futura;
- l'indicativo futuro anteriore, quando l'azione è futura rispetto ad un'azione presente o futura ma
antecedente ad un'altra azione futura;
- il condizionale passato, quando l'azione è futura rispetto ad un'azione passata.
Tempo presente
| -are (es. parl-are) | -ere (es. vend-ere) | -ire (es. dorm-ire) |
io | -i | -a | -a / -isca |
tu | -i | -a | -a / -isca |
lui, lei | -i | -a | -a / -isca |
noi | -iamo | -iamo | -iamo |
voi | -iate | -iate | -iate |
loro | -ino | -ano | -ano / -iscano |
Tempo imperfetto
| -are (es. parl-are) | -ere (es. vend-ere) | -ire (es. dorm-ire) |
io | -assi | -essi | -issi |
tu | -assi | -essi | -issi |
lui, lei | -asse | -esse | -isse |
noi | -assimo | -essimo | -issimo |
voi | -aste | -este | -iste |
loro | -assero | -essero | -issero |
Uso dei tempi del congiuntivo
La grammatica ha ereditato dalla grammatica latina, sia pure con delle differenze, la consecùtio tèmporum,
cioè un insieme di norme che regolano il rapporto tra i tempi e i modi di una frase principale
(o sovraordinata) e della frase subordinata per esprimere il rapporto di contemporaneità, anteriorità,
e posteriorità.
Questo sistema di regole viene descritto qui con l'esempio della subordinata al congiuntivo.
Esempi di errori:
- Se c'è il rischio che alcuni soggetti spiano (giusto: spiino),
- Se c'è il rischio che alcuni soggetti spiassero, (giusto: spiino),
- Se c'è il rischio che alcuni soggetti venissero spiate (giusto: vengano).
Il congiuntivo presente è obbligatorio dopo le espressioni impersonali formate dal verbo essere
più aggettivo (è normale che, è logico che, ecc.) o nome (c'è il pericolo che).
Valeria Della Valle
Libro Viva il congiuntivo!.
Modo imperativo
L'imperativo si usa per formulare esortazioni. Rifiuta sempre il pronome personale soggetto.
| -are (es. parl-are) | -ere (es. vend-ere) | -ire (es. dorm-ire / cap-ire) |
2a pers. sing. | -a | -i | -i /-isci |
3a pers. sing. | -i | -a | -a/ -isca |
1a pers. plur. | -iamo | -iamo | -iamo |
2a pers. plur. | -ate | -ete | -ite |
3a pers. plur. | -ino | -ano | -ano / -iscano |
Per la prima persona plurale (noi), le forme coincidono con quelle del presente indicativo e vengono
di solito considerate a tutti gli effetti come forme dell'imperativo.
Per la terza persona, invece, viene usata la corrispondente voce del congiuntivo (congiuntivo esortativo).
Quando è seguito da pronome complemento oggetto, questo può assumere la forma enclitica
atona -mi, -ti, -lo, -la, -ci, -vi, -li, -le (es. "guardami!" = "guarda me!"); quando è seguito da pronome
complemento di termine, questo può assumere la forma enclitica atona -mi, -ti, -gli, -le, -ci, -vi
(es. "consegnami il libro!" = "consegna a me il libro!").
Modo gerundio
Il gerundio si usa con il verbo "stare" per la costruzione di frasi progressive ("sto andando a Roma",
quindi sono in viaggio), oppure al posto di una frase subordinata temporale o causale ("vedendo il sole,
uscì).
Esiste il gerundio presente, un tempo semplice, e il gerundio passato, tempo composto formato dal gerundio
presente dell'ausiliare e dal participio passato del verbo: "avendo parlato - essendo caduto".
A volte nel gerundio passato l'ausiliare è omesso, e rimane il solo participio passato con la stessa
funzione del gerundio, ed è impersonale come l'infinito.
Il gerundio italiano, che deriva dall'ablativo del gerundio latino, possiede un tempo semplice
e un tempo composto (partendo; essendo partito).
In proposizioni secondarie il gerundio può avere funzione temporale (voltandosi mi vide), modale,
strumentale (volendo si può acquistarlo), causale (correndo viene il fiato grosso) ipotetica
(volendo la si può acquistare).
In alcuni casi ha costruzione assoluta soprattutto in frasi fatte (a Dio piacendo; e via dicendo).
-are (es. parl-are) | -ere (es. vend-ere) | -ire (es. dorm-ire / cap-ire) |
-ando | -endo | -endo |
Modo participio
Il participio presente è la forma che esprime un soggetto nell'atto o nella qualifica di chi compie
l'azione: "il quorum è raggiunto se si recano a votare la maggioranza degli aventi diritto al voto".
È variabile per numero.
È indicata come participio passato la forma usata principalmente per la costruzione dei tempi composti.
Viene inoltre usato come aggettivo per descrivere la persona o la cosa avente ricevuto un'azione:
"i piatti lavati vengono quindi asciugati" = "i piatti che sono stati lavati vengono quindi asciugati"
o "i piatti, dopo essere stati lavati, vengono quindi asciugati"; in quest'ultimo caso è declinato come
un aggettivo.
| -are (es. parl-are) | -ere (es. vend-ere) | -ire (es. dorm-ire / cap-ire) |
presente | -ante | -ente | -ente / -iente |
passato | -ato | -uto | -ito |
(wikipedia)
www.coniugazione.it
Ultima modifica 30-08-2011
<- menu scienze base
grammatica italiana, accenti
La necessità dell'accento è prevista dall'ortografia italiana nei seguenti monosillabi per evitare eventuali
problemi di omografia:
ché (congiunzione causale), che (in ogni altro senso)
dà (indicativo presente di dare), da (preposizione) e da' (imperativo di dare)
dì (giorno), di (preposizione) e di' (imperativo di dire)
è (verbo), e (congiunzione)
là (avverbio), la (articolo, pronome, nota musicale)
lì (avverbio), li (pronome)
né (congiunzione), ne (pronome, avverbio)
sé (pronome tonico), se (congiunzione, pronome atono)
sì (avverbio), si (pronome, nota musicale)
tè (pianta, bevanda), te (pronome)
Gli imperativi troncati, così come la parola poco, prendono l'apostrofo e non l'accento:
va' pure, fa' un po' come vuoi (errato fà; l'avverbio si scrive fa: dieci anni fa).
Le parole qui e qua non sono accentate (su qui e qua l'accento non ci va).
sé: per il pronome personale tonico (riflessivo) è regola fortemente sostenuta dai linguisti di oggi porre
l'accento sempre, anche in espressioni come sé stesso (sebbene non a rischio di confusione),
contrariamente all'uso della prima parte del Novecento, ancora ampiamente prevalente.
Poiché non c'è accordo sulla norma da adottare ufficialmente, la scelta è lasciata alla sensibilità di ciascuno.
su: l'accento per 'su' avverbio è superfluo.
Non esistono reali necessità di disambiguazione per i monosillabi omografi delle note musicali, perciò ad
esempio l'indicativo presente di prima persona singolare del verbo dare è da scriversi 'do' senza accento.
Al contrario, l'accento è da porsi su monosillabi come giù, già, ciò, e sui polisillabi composti come:
viceré, trentatré, gialloblù.
Un altro uso dell'accento, facoltativo e da usarsi solo se davvero aumenta la chiarezza, serve a distinguere
immediatamente parole omografe (come 'dài' verbo e 'dai' preposizione, 'subìto' verbo e 'sùbito' avverbio,
'princìpi', ideali e 'prìncipi', persone: in questo caso si possono distinguere le due parole anche coll'accento
circonflesso, non molto usato – principî/principi –, o colla doppia i – principii/principi –), o per indicare la
pronuncia corretta di parole poco conosciute o che comunque rischiano di essere pronunciate
scorrettamente: o con l'accento tonico sbagliato (quindi non le parole piane, in genere) o con un'apertura
errata delle vocali (pésca/pèsca, cólto/còlto).
Grave o acuto Per approfondire, vedi la pagina Accento grafico.
Nelle parole italiane la vocale a (aperta) può avere soltanto l'accento grave, come anche la o se in finale di
parola (sempre aperta in parole italiane).
Quindi l'accento può variare fra grave e acuto solo nel caso di e a seconda che sia aperta (è) o chiusa (é).
Nella maggior parte dei casi la parola termina con un accento acuto: lo si ha nei seguenti casi:
ché nell'accezione di perché, e i composti di ché, re e tre, e fé (come perché, giacché, sicché, finché, viceré,
ventitré, autodafé);
parole come né, sé, mercé, scimpanzé;
nei passati remoti (come poté, combatté, credé, eccetto diè).
Si ha invece l'accento grave con:
casi come cioè, ahimè, piè, tè, caffè;
nel caso di alcuni termini di origine francese ma con grafia italiana (come relè, sufflè, gilè, purè, lacchè)
nonostante, in quasi tutti i casi, l'originale sia scritto con l'accento acuto (e/o pronunciato come [e] chiusa):
purè da purée, gilè da gilet eccetera;
nella maggior parte dei nomi propri (Giosuè, Mosè, Noè, Salomè, Averroè).
Un discorso a parte meritano i e u, che sono sempre chiuse e quindi teoricamente dovrebbero avere sempre
l'accento acuto (ú, í).
D'altronde per molti questo non ha senso perché l'accento normale sarebbe quello grave, alternato all'acuto
solo in caso di ambiguità.
In ogni caso, la presenza nella tastiere italiane solo di ù e ì ha fatto sì che queste siano decisamente
prevalenti.
Ultima modifica 17-08-2011
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punteggiatura
Simboli grafici convenzionali, detti segni di punteggiatura o d'interpunzione, che vengono usati nella forma
scritta.
Servono a conferire tonalità ed espressione al testo e svolgono i compiti: pausativo, sintattico ed espressivo.
Sono indispensabili per la corretta lettura dei testi e ne facilitano la comprensione.
Questi segni sono comuni nelle principali lingue indoeuropee.
Punto ( . )
Nella maggior parte dei casi serve a separare due sezioni di discorso contenenti idee fondamentalmente
diverse, ovvero i periodi.
È un'importante norma, nel caso in cui il punto venga utilizzato per chiudere un periodo, che la prima parola
di quello immediatamente successivo inizi con la lettera maiuscola, dopo aver lasciato uno spazio.
Il punto può anche servire come segno di abbreviazione, e in questo caso può trovarsi sia alla fine che al
centro di una parola; due esempi per un caso e per l'altro sono Ing. per Ingegnere e Prof.ssa per
Professoressa.
Naturalmente, nel caso in cui si faccia questo utilizzo del punto, dopo di esso non sono d'obbligo né la
maiuscola né lo spazio.
Virgola ( , )
Il suo nome viene dal latino virgula,-ae, che significa "bastoncino, piccola verga": la denominazione rimanda
chiaramente alla forma che essa possiede anche nei testi attuali.
Essendo il più breve segno di pausa, essa corrisponde nella lettura ad un minutissimo intervallo della voce.
Nella lingua italiana, le norme per regolare l'uso della virgola sono piuttosto complesse ma possono essere
riassunte in alcuni punti:
• deve essere usata per dividere i singoli elementi paralleli di una lista o di un elenco:
Per fare il pane occorrono: la farina, il lievito, l'acqua, un pizzico di sale;
• usata per separare la proposizione dipendente (o secondaria) dalla proposizione reggente da cui dipende
(cioè la principale). Questo può avvenire in tre casi diversi:
• • quando la secondaria precede la principale: Se fossi ricco, mi comprerei un'isola;
• • quando la secondaria segue la principale:
Nel deserto vivono pochi animali, perché le condizioni ambientali sono proibitive;
• • quando la secondaria è inserita all'interno della principale (inciso):
Il mio migliore amico, che è un grande tennista, ha vinto molti tornei;
Ovviamente in questi casi è opportuno non usare la virgola quando la proposizione secondaria è strettamente
connessa alla proposizione principale: Non devi guardare il sole se non vuoi ferirti la vista.
La virgola è usata per separare proposizioni tra di loro indipendenti:
La bambina corre nel prato, vede un fiore, si ferma, lo guarda e poi lo coglie.
Viene usata anche dopo le espressioni Sì e No: Sì, sono stato io a chiamarti; No, non mi interessa.
Viene usata dopo le frasi introduttive:
Visto che è tardi, me ne andrò a dormire; Se i miei calcoli non sono errati, dovresti farcela.
La virgola va usata anche dopo le interiezioni (Ehi, dico a te!), dopo le esortazioni (Ti prego, scrivimi ogni tanto)
e dopo i vocativi (Andrea, ricordati le chiavi di casa!).
La virgola si usa anche per separare le frasi incidentali:
Mario rispose, senza alcun dubbio, che era pronto per l'incarico;
le apposizioni: Giacomo Leopardi, famoso poeta italiano, è nato a Recanati.
Oltre alle regole enunciate sopra, è bene ricordare che la virgola non deve mai essere usata per separare il
soggetto dal predicato o quest'ultimo dal complemento oggetto:
Frasi sbagliate:
I principali esperti del settore, hanno dichiarato che il reperto è molto antico.
I principali esperti del settore apprezzano, quel reperto.
Frasi corrette:
I principali esperti del settore hanno dichiarato che il reperto è molto antico.
I principali esperti del settore apprezzano quel reperto.
La virgola è adoperata anche per separare nomi propri di persona da locuzioni, quali saluti, ecc.
La virgola fa anche cambiare il significato di alcune frasi, infatti la sua posizione è rilevante per il significato
della frase; ad esempio:
Mentre Luca salta, un ostacolo cade (questa frase significa che mentre Luca salta, l'ostacolo è caduto al suo
passaggio).
Mentre Luca salta un ostacolo, cade (questa frase, invece, significa che Luca mentre saltava è caduto a terra).
Da questo semplice esempio si può capire che la posizione della virgola può far cambiare il significato alla
frase.
Punto e virgola ( ; )
Nella lettura corrisponde ad una pausa di valore intermedio tra quella più lunga del punto fermo e quella
breve della virgola.
È particolarmente diffuso nella lingua italiana, ma viene usato, anche se più raramente, anche in diverse
lingue straniere.
Indica la fine del concetto; tale concetto si ricollega alla più grande idea di cui tratta l'intero periodo.
Il punto e virgola non indica perciò né la fine dell'idea generale (come farebbe il punto), né la continuazione
del concetto minore (che costituisce il ruolo della virgola), ma qualcosa di intermedio tra queste due funzioni.
Questo segno risulta perciò utile nei periodi lunghi e complessi, ricchi di ramificazioni difficili da controllare.
Un uso collegato è quello, per esempio, all'interno di un inciso tra parentesi, dove è scorretto usare il
punto.
Un secondo frequente utilizzo del punto e virgola consiste nel porlo alla fine degli elementi di un elenco
puntato, dove il punto fermo intenderebbe una forte divisione concettualmente tra gli stessi e obbligherebbe
alla maiuscola iniziale nel punto successivo.
L'utilizzo del punto e virgola iniziò attorno ai primi del Cinquecento per opera del celebre stampatore italiano
Aldo Manuzio, che si fregiò, inoltre, anche dell'invenzione del carattere corsivo.
In seguito, esso espanse il suo utilizzo fino alla curia romana, dove, per volere dello stesso papa Pio IV,
il figlio di Aldo Manuzio aprì una stamperia.
Sempre poco adoperato, il punto e virgola è poco utilizzato ai giorni nostri.
Nel greco antico il punto e virgola aveva ben altro significato: poteva esprimere o due punti o (a seconda se la
frase presentasse una interrogativa o esclamativa) un punto interrogativo o esclamativo.
Nel greco moderno, invece, indica esclusivamente il punto interrogativo.
Due punti ( : )
Nella lingua italiana, la funzione fondamentale dei due punti è quella esplicativa: una frase introdotta da
essi (come quella che si sta leggendo in questo momento) serve difatti a chiarire il significato della
proposizione che la precede.
Nonostante questo sia l'uso più affermato dei due punti, ne esistono anche di diversi:
• i due punti, come si può notare in questo testo, possono precedere una lista numerata o dotata di punti
elenco;
• sono inoltre in grado di sostituirsi ad una congiunzione di tipo causale, trasformando in una coordinata alla
reggente quella che precedentemente poteva essere considerata una subordinata, come nell'esempio
seguente (in cui sono stati evidenziati i due punti e la congiunzione cui si sostituiscono):
Oggi non uscirò di casa, perché temo che si possa scatenare un temporale
Oggi non uscirò di casa: temo che si possa scatenare un temporale
• frequentemente, sia nei copioni teatrali che in romanzi, racconti ed altri testi di narrativa, i due punti sono
adoperati per introdurre il discorso diretto, mentre non sono utilizzati nel caso di discorsi indiretti; i successivi
sono esempi dell'uno e dell'altro caso:
discorso indiretto: Mario disse che Lucia era davvero simpatica.
discorso diretto: Mario disse: «Lucia è davvero simpatica».
Punto esclamativo ( ! )
Graficamente è costituito da un classico punto fermo sulla cui sommità si trova un'asta.
Tale rappresentazione grafica nacque nel Medioevo, in epoca più o meno contemporanea alla nascita del
punto interrogativo.
I copisti medievali infatti, per indicare la sorpresa o la gioia in una frase, scrivevano alla fine di essa la parola
latina io, che significava evviva.
Nel corso del tempo la I si spostò al di sopra della O divenendo così l'asta del punto esclamativo, mentre il
punto stesso si formò grazie al rimpicciolimento della vocale O.
Il simbolo è stato introdotto nella stampa inglese nel 15esimo secolo, come "segno di ammirazione o
esclamazione" o come "nota di ammirazione" fino alla metà del diciassettesimo secolo.
Nella scrittura tedesca, è comparso per la prima volta nel 1797, nella Bibbia di Lutero.
Sulle macchine da scrivere, il segno è stato introdotto dopo il 1970 [fino ad allora, si usava scrivere punto,
spazio e apostrofo (. ')].
Il punto esclamativo è molto adoperato nei romanzi e in fumettistica, mentre scarseggia nei testi di cronaca
e in quelli di studio.
Ciò dipende dal fatto che normalmente viene posto alla fine di frasi o dopo parole esprimenti incredulità o
sorpresa, gioia o entusiasmo, dolore o minaccia, che sono molto più presenti nei primi generi elencati
rispetto ai secondi.
In generale, l'utilizzo moderno tende ormai a evitare il punto esclamativo, considerato eccessivamente
enfatico e ridondante, tanto in letteratura quanto negli articoli di giornale e nella cronaca.
È ben tollerato, invece, nella letteratura e nella pubblicistica per ragazzi.
Per le stesse ragioni va limitandosi anche l’uso dei doppi o tripli punti esclamativi, così come quello del
punto esclamativo unito al punto interrogativo (per non parlare dei mai decollati punto esclarrogativo e
virgola esclamativa).
In controtendenza il linguaggio dei blog, in cui i punti esclamativi e i puntini di sospensione compaiono in
abbondanza quasi a voler sopperire con i segni grafici alle carenze di espressività dei testi.
Alcuni autori, come Francis Scott Fitzgerald lo detestano mentre altri, come Tom Wolfe, lo apprezzano.
Nell'inglese britannico, (!) esplicita un commento sarcastico.
Questo succede sia nello scritto sia, soprattutto, nei sottotitoli.
Il punto esclamativo compare in diversi nomi propri: tra di essi il noto servizio web Yahoo!, il game show
Jeopardy! e il musical TV Shinding!, così come vari musical (Oklahoma!, Oliver!, Oh! Calcutta!) e film
(Airplane! e Moulin Rouge!).
La scrittrice Elliot S! Maggin scrisse il suo modo così (S!) a partire negli anni settanta.
La città inglese Westward Ho! adottò tal nome dopo il romanzo omonimo di Charles Kingsley.
Altri sono Il paese Saint-Louis-du-Ha! Ha!, nel Québec, e la città Hamilton!, nell'Ohio, che ha aggiunto il
punto esclamativo a partire dal 1986.
Attualmente il punto esclamativo ha anche altri svariati utilizzi al di fuori del campo specifico della
punteggiatura.
Tali usi si riallacciano in particolare al significato di minaccia (o di avvertimento) connesso a questo segno
grafico.
È il caso, per esempio, della sua introduzione sui cartelli di pericolo della segnaletica stradale, dove ha
sostituito la precedente barra verticale per indicare un pericolo generico fisso (su sfondo bianco)
o temporaneo (su sfondo giallo).
Con sfumature di significato leggermente diverse lo si applica anche sui materiali d’imballaggio (in genere
su un’etichetta triangolare rossa capovolta) per indicare: “attenzione, pericolo, maneggiare con cautela”.
Da simili convenzioni ufficiali, o comunque accettate a vario titolo a livello internazionale, discende il
particolare significato di “attenzione” che viene oggi comunemente associato al punto esclamativo, non più
nell’accezione di pericolo (che comunque permane sempre, sia pure in forma larvata), bensì in quella di
segnalazione importante, da ricordare, cui prestare appunto attenzione.
Punto interrogativo ( ? )
Nella lettura corrisponde a un'intonazione ascendente, di domanda o richiesta.
In greco antico, la funzione di contrassegnare una domanda, espressa oggi col punto interrogativo, era
demandata a un punto e virgola ";".
Nel corso dei secoli tale convenzione decadde, e per tutta l'età antica non si usarono segni particolari per
esprimere l'intonazione interrogativa.
Il punto interrogativo vero e proprio nacque nel Medioevo, all'epoca dei monaci copisti: essi infatti solevano,
per indicare le domande, scrivere alla fine delle frasi la sigla qo, che stava per quaestio (dal latino, domanda).
Per evitare di confondere questa sigla con altre, in seguito cominciarono a scrivere le due lettere che la
componevano, l'una sull'altra e a stilizzarle, mutando la Q in un ricciolo e la O in un punto, dando così vita al
punto di domanda (?) come lo conosciamo.
Punti di sospensione ( … ) ( ... )
Si tratta di un segno di pausa e quindi nella lettura corrisponde a un intervallo fonetico paragonabile a quello
di una virgola.
I punti di sospensione sono quasi sempre in numero di tre, sia che si trovino alla fine, all'inizio o all'interno
di un periodo.
I punti di sospensione hanno vari utilizzi:
• segnalano una "sospensione" nel discorso (da cui il nome), come una frase non conclusa, un'esitazione
o un accenno lasciato volutamente indefinito (figura retorica dell'ellissi).
Sono utilizzati anche per riprodurre l'andamento spezzato ricco di pause della lingua parlata.
Sono attaccati alla parola che li precede e sono seguiti sempre da uno spazio a meno che il carattere
successivo non sia una parentesi di chiusura o un punto interrogativo.
Se posti alla fine di una frase si riprende con la lettera maiuscola. Esempi:
"Andammo a cena insieme e poi…"
«Ella è… non è…» (Dante, Divina commedia)
• Segnalano anche la "sospensione" di una parola che pronunciata per esteso risulterebbe volgare,
di turpiloquio o una imprecazione.
In questo caso i puntini sono attaccati alla parte antecedente o seguente del termine. Esempio:
"vaff…"
• I punti sospensivi si scrivono preceduti e seguiti da spazi se sostituiscono del testo, quale, ad esempio,
una parola o un paragrafo.
Ad esempio: Per il campeggio occorrono tenda, sacco a pelo, fornello da campo, … e tutto quanto rende
agevole il soggiorno nella natura.
• Se sono soli in una frase, i punti di sospensione indicano sorpresa e stupore: non è raro trovare questo
utilizzo nei romanzi e nelle opere di narrativa in genere.
• Si adoperano tra parentesi quadre ([…]) per indicare in una citazione la deliberata omissione di una parte
di testo originale o una lacuna nel testo conservato; questo utilizzo non è affatto infrequente nei testi di studio,
in cui non si possono citare interi paragrafi di un'opera ma solo i loro punti salienti.
• I puntini sospensivi indicano inoltre iterazione, come nel caso di formule matematiche come
1 + 2 + 3 +…+ 9 + 10 = 55, che vuole dire "la somma di tutti i numeri interi da 1 a 10 è uguale a 55", o nelle
elencazioni di elementi di una successione come 1, 2, 3, …, n (i numeri da uno a n).
Virgolette ( « » ) ( ‘ ’ ) ( “ ” )
Sono di tre tipi: caporali (« ») dette anche sergenti, alte semplici o singoli apici (‘ ’) ed alte doppie o doppi
apici (“ ”).
Usate per dare alla parola o frase un particolare rilievo, e si usano per indicare citazioni, discorsi diretti,
parole o frasi gergali, tecniche, dialettali o straniere non ancora entrate nell'uso comune della lingua.
L'uso dei caporali (« ») è andato via via diminuendo con l'avvento del desktop publishing negli anni ottanta,
in quanto nelle prime versioni dei programmi (in realtà fino a tutti gli anni novanta) non erano presenti i
caratteri adeguati: un semplice segno di doppio apice ( " ) sostituiva tutti i tipi doppi (sia aperti che chiusi) e il
segno di secondo, mentre l'apice singolo ( ' ) sostituiva l'apostrofo, entrambi gli apici singoli (aperto e chiuso)
e anche il segno di primo.
In molte lingue, alfabeti e paesi vengono di regola usate le doppie virgolette, mentre le altre vengono usate
come alternative o per casi speciali, come all'interno di una citazione, per concetti specifici o titoli cubitali.
Ci sono tuttavia delle eccezioni come per esempio in inglese: gli americani usano per lo più le doppie,
mentre gli inglesi usano spesso le singole.
Barra ( / )
In inglese slash, si utilizza come separazione fra diverse alternative, o nelle date.
È usato per scrivere unità di misura espresse da frazioni.
Alcuni esempi dell'uso della barra:
Oggi è il 18/07/2011
100 km/h
Mangiare e/o dormire
Il/la sottoscritto/a ... nato/a a ...
Parentesi ( ( ) ) ( [ ] ) ( { } ) (< >)
Dal greco parènthesis, a sua volta derivante dal termine parentìthemi che vuol dire frappongo, sono una serie
di simboli tipografici che servono a contenere altri caratteri; di ognuna esiste una versione di apertura ed una
di chiusura: la prima è generalmente un'immagine dotata di convessità verso sinistra, mentre la seconda la
possiede generalmente a destra.
Nella lettura italiana esse non devono essere pronunciate, se non tramite la locuzione "tra parentesi";
in matematica invece si suole leggerle dicendo i loro nomi.
Le parentesi più adoperate sono quelle tonde ( ), chiamate così per la loro forma curvilinea.
In italiano, esse indicano la presenza di una proposizione all'interno di un periodo legata ad esso solo a
livello concettuale e non grammaticale; un esempio è la frase:
La scala Kelvin (K, un'invenzione di Lord Kelvin) è l'unica a essere assoluta e non arbitraria.
Sono pure usate quando, in un testo, si inserisce una nota dell'autore esterna alla logica grammaticale
dello scritto ma inerente al suo significato:
L'Italia (il mio Paese di nascita) è un paese meraviglioso, in questo caso però sono molto più frequenti le
virgole: L'Italia, il mio Paese di nascita, è un paese meraviglioso.
Le parentesi quadre [ ], insieme alle tonde, sono le uniche adoperate anche in lingua italiana oltre che nel
linguaggio matematico.
In italiano le parentesi quadre si usano o quando c'è un’ellissi (nella tipica scrittura [...]) o quando bisogna
fornire una spiegazione tecnica.
In lingua italiana, un altro utilizzo delle parentesi quadre, sebbene non molto frequente, si ha quando si
inserisce un inciso dentro un altro inciso, più esterno:
frase (spiegazione [spiega della spiegazione]).
Le parentesi graffe { } [dall'antico tedesco krapfo o dal moderno krapfen, entrambi significanti artiglio] sono
chiamate così perché ognuna di esse somiglia ad una coppia di artigli; questi caratteri tipografici sono molto
meno utilizzati rispetto alle tonde e alle quadre: il loro uso si limita infatti alla sola matematica, dove indicano
però diversi elementi ed informatica, utilizzate in alcuni linguaggi di programmazione.
Le parentesi uncinate o angolari o acute, dette anche chevron (< >) [dal francese, nel significato di capriata],
prendono il nome dal fatto di avere una forma ad angolo acuto, simile a quella di un uncino.
I chevron non sono mai adoperati in lingua italiana, e rarissimamente in matematica al posto delle parentesi
angolate: il loro maggiore utilizzo è infatti di tipo informatico.
In informatica, difatti, le parentesi uncinate sono adoperate per racchiudere i tag dei linguaggi di markup,
come i tag HTML, ma non mancano gli utilizzi come semplice delimitazione di argomenti generici
(per esempio in Java); sono usate anche per racchiudere gli indirizzi Internet ed e-mail.
Lineetta ( – ) ( — )
Una lineetta è un segno ortografico nella lingua italiana, e di punteggiatura in altre lingue.
È differente da un trattino ed ha altri utilizzi.
apostrofo ( ' ) ( ´ )
Annoverato tra i segni d'interpunzione, sarebbe più appropriato definirlo un segno paragrafematico (assieme
ai grafemi propriamente detti concorre alla formazione della corretta grafia delle parole) e talvolta un segno
diacritico (aggiunto ad una lettera per modificarne la pronuncia o per distinguere il significato di parole simili).
Molto spesso nei testi elettronici è usato in funzione di apostrofo il carattere apice ( ' ) perché non ha bisogno
di una codifica caratteri specifica e si trova facilmente su tutte le tastiere.
In italiano l'attuale norma ortografica prevede l'uso dell'apostrofo:
• l'elisione, dov'è sempre obbligatorio;
• in taluni casi di troncamento ben codificati;
• nelle aferesi, soprattutto per gli accorciamenti delle date scritti in numeri il '68.
Di particolare importanza è la presenza dell'apostrofo con gli articoli indeterminativi in contesti in cui il
sostantivo non determina il genere del soggetto attraverso la desinenza: scrivere un artista indica che quel
un è troncamento di "uno" e quindi l'artista è un uomo; scrivere "un'artista", invece, indica che quel quel un
è elisione di "una" e quindi che l'artista è una donna.
Altre volte, invece, l'apostrofo viene messo a sproposito laddove si tratta di semplici troncamenti, dando
origine ad alcuni dei più diffusi errori ortografici come «qual'è», «fin'ora», ecc, che si possono scrivere
solamente senza apostrofo (quindi: "qual è" e "fin ora").
Nell'inglese l'apostrofo viene usato in diversi contesti:
• come abbreviazione: ad esempio, gov't per government, li'l per little, playin' per playing oppure '70s per 1970s.
• come contrazione: ad esempio, can't per cannot.
Anche forme come won't per will not possono essere viste come contrazioni.
• come possessivo, nel genitivo sassone: ad esempio, John's car per The car John owns.
• in poesia, come eliminazione di una vocale muta, solitamente una e, che quindi non deve venire
pronunciata e fa diminuire di una il conteggio delle sillabe.
Generalmente la lettera eliminata è quella del suffisso -ed della forma passata dei verbi.
tratto d'unione o trattino ( - )
Viene utilizzato nelle parole composte e nella sillabazione.
È spesso confuso con la lineetta ( –, — ), che è differente ed ha differente funzione, e con il segno meno ( - )
che è anch'esso differente.
La sillabazione consiste in una divisione di una parola in due sillabe o gruppi di sillabe, la prima delle quali
viene terminata correntemente con un trattino e la seconda delle quali viene portata a capo della riga
successiva.
Può aiutare nel comporre due o più parole, esempio: italo-eschimese, teorico-pratico.
spazio ( )
Qualunque spazio vuoto utilizzato per separare sezioni di testo scritto.
Convenzionalmente indica però l'area vuota fra parola e parola.
Le convenzioni sulla presenza e la dimensione degli spazi tra parole variano da lingua a lingua.
Molti e differenti "caratteri spazio" sono disponibili nei set informatici per rappresentare spazi di differenti
dimensioni e significato.
Non tutte le lingue usano gli spazi tra le parole.
Gli spazi non venivano usati in latino fino al VII – IX secolo circa.
L'antico ebraico e l'arabo fanno uso di spazi, in parte per compensare la perdita di chiarezza dovuta
all'eliminazione delle vocali.
Tradizionalmente tutte le lingue CJK non hanno spazi: il cinese ed il giapponese moderni (eccetto, per il
giapponese, quando viene scritto con pochi o nessun kanji) non ne fanno uso, ma il coreano moderno usa
gli spazi.
punto mediano ( · )
Piccolo punto usato al posto dello spazio per separare le parole nell'antico latino scritto.
Il punto è centrato verticalmente, ed è per questo denominato in inglese mid dot.
Ultima modifica 28-11-2012
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segni vari
ampersand o e commerciale (et) ( & )
Rappresenta la congiunzione "e", diffuso prevalentemente in ambito anglosassone col valore di "and".
Il carattere è una legatura delle lettere del latino et.
L'ampersand apparve spesso come una lettera a sé stante alla fine dell'alfabeto latino, come per esempio
nella lista di Byrhtferð del 1011.
Si pensa che il nome ampersand risalga al XIX secolo, quando in Gran Bretagna si considerava l'ultima
lettera dell'alfabeto (... X Y Z e &), e veniva chiamato con la corruzione della frase "and per se and", cioè
"e [il simbolo che] di per sé [è] and".
L'ampersand è utilizzata prevalentemente nei nomi di ditte, a indicare un'unione in affari (es. Rossi & figli).
Nel linguaggio corrente e in quello formale non è più in uso, fatta eccezione per i casi sopracitati.
asterisco ( * )
Consiste in una stella a cinque o sei bracci.
L'etimologia del suo nome è probabilmente da ricercare nel latino medievale astericolum, i, che letteralmente
significa "stellina", denominazione dovuta alla sua forma.
L'asterisco ha molteplici usi; i due più conosciuti sono senz'altro quelli a livello testuale di rimando alle note
o per segnalare un'omissione (o di censura) volontaria di un riferimento che viene per così dire "criptato".
In linguistica invece indica, posto prima di una parola, una forma della stessa non documentata storicamente
ma supposta o ricostruita (specie negli etimi); altrimenti indica un costrutto linguistico agrammaticale o
asemantico.
È adoperato quando nei testi si necessita di una spiegazione che non può essere data subito, ma per la
quale si deve ricorrere alle note: la presenza di un asterisco sulla parola da spiegare e di un altro uguale al
primo, a fondo pagina, con accanto le delucidazioni necessarie è senz'altro il sistema più adoperato.
Quando nella stessa pagina c'è bisogno di chiarire diverse parole, per evitare di creare confusione utilizzando
sempre lo stesso asterisco (che infatti potrebbe rimandare ad una qualsiasi delle note presenti a piè di
pagina), si usano tre diversi sistemi:
• adoperare ogni volta asterischi di forma diversa (ogni simbolo si può prestare a fare da asterisco) rende
facile la comprensione, ma in presenza di molte note le numerose forme da seguire potrebbero diventare tra
loro indistinguibili;
• utilizzare un numero di asterischi diverso per ogni parola da illustrare nelle note (**, ***) è sicuramente un
sistema comprensibile, ma se le note divengono troppe il lettore potrebbe sentirsi in difficoltà nel ricercare
quella giusta, dovendo contare tutti gli asterischi presenti;
• un numero al di sopra dell'asterisco ( *², *³ ) permette infine di capire chiaramente a quale delle note si
rimanda.
chiocciola o a commerciale (at) ( @ )
Conosciuta in inglese col nome at e in francese come arobase, è un carattere tipografico adoperato
soprattutto per la posta elettronica.
Graficamente, essa rappresenta una a stilizzata con attorno un ricciolo: da ciò derivano la somiglianza con
il mollusco, di cui riproduce il guscio, e i nomignoli che essa possiede.
Già in uso nel VII secolo d.C., presso i mercanti veneziani la @ era un segno grafico che rappresentava
l'anfora, utilizzata allora come misura di peso e capacità.
E un simbolo ancora utilizzato da spagnoli e portoghesi (arroba, equivalente a 12 a 15 kg oppure 10 a 16 l).
In Francese si chiama (AROBAS,ARROBE,AROBE) in cui l'origine viene dal'ARABO (AR-ROUB) che significa
un quarto. La si trova in un documento commerciale del 1536.
La @ nasce come unione stilizzata delle lettere "a" e "d" minuscole formanti la parola latina ad (cioè "verso",
nei moti a luogo).
I popoli anglofoni modificarono il suo significato da ad a at, e quindi da verso a presso (grammaticalmente,
da moto a luogo a stato in luogo) curvando l'asta della lettera d verso sinistra.
La @ era presente nella macchina per scrivere Lambert del 1902 prodotta dalla Lambert Typewriter
Company di New York e nella IBM Selectric del 1961 e serviva ad abbreviare la frase commerciale
"at a price of = al prezzo di".
Nel 1963 venne inclusa nel set originale dei caratteri ASCII.
La @ possiede numerosi utilizzi:
• è adoperata principalmente in informatica, dove serve a separare il nome dell'utente da quello del nome di
dominio negli indirizzi di posta elettronica; un esempio è l'e-mail tizio@example.com, dove l'utente si chiama
"Tizio" e il dominio "example.com";
• "at" è anche adoperato nella posta comune, al pari del segno c/o; esso significa, come in molti altri casi,
"presso" ed è quindi ovvio che si trovi negli indirizzi della corrispondenza ad indicare il luogo in cui
vive/lavora il destinatario;
• nella tecnica motoristica la "at" è adoperata per indicare le prestazioni condizionate: un esempio può
essere "Potenza: 100 kW @ 5000 giri/min"; ciò vuol dire che la potenza (massima) di 100 kW è raggiungibile
ad un regime di 5000 giri/min.;
• negli eventi sportivi americani la "at" è adoperata come separatore dei nomi delle due squadre contendenti,
ad indicare quale delle due (la seconda) giocherà sul campo casalingo: ad esempio
"LA Lakers @ Boston Celtics" indica che la partita avrà luogo a Boston.
Nel marzo del 2010, Paola Antonelli, Senior Curator del Department of Architecture and Design del MoMA
di New York, ha reso noto che la chiocciola è stata inserita nella collezione, perché non è soltanto uno
strumento utilizzato in informatica, ma è un mezzo di comunicazione e una forma della nostra identità.
barra inversa ( \ )
Backslash, o barra retroversa, o anche barra inversa o barra rovesciata, (in italiano si può usare banda dal
significato araldico del termine: elemento grafico simmetrico alla barra) è un segno tipografico largamente
utilizzato in informatica; per brevità anche in Italia si tende ad utilizzare il termine inglese.
Questo simbolo viene impiegato, ad esempio, nell'ambito dei sistemi operativi Microsoft come separatore
tra i nomi delle directory nel percorso di un file.
punto elenco ( • )
Simbolo tipografico o glifo usato per introdurre gli elementi di un elenco (detto appunto elenco puntato).
Molto usato nei manuali tecnici (o reference works) per introdurre una serie di elementi correlati.
Possono essere brevi frasi o avere la lunghezza di un paragrafo.
La questione principale è che tutti i punti necessitino di essere riuniti insieme sotto lo stesso argomento.
Gli elementi dell'elenco non terminano solitamente con un punto fermo, a meno che non siano frasi complete,
è altresi pratica diffusa (ad esempio in Portogallo) il concludere ogni elemento, eccetto l'ultimo, con una
virgola.
È corretto concludere un elemento della lista con un punto fermo nel caso in cui più di una frase sia
contenuta nell'elemento stesso.
obelisco ( † ‡ )
Detto anche pugnale o spada, è un simbolo tipografico di uso specifico e limitato.
La forma più diffusa è oggi quella semplice, preferita solitamente a quella dotata di grazie, un tempo più
utilizzata.
Il suo nome non viene mai pronunciato durante la lettura, nonostante non si tratti di un segno di pausa,
al pari di altri simboli di uso analogo, come l'asterisco.
Per indicarlo, oltre al termine "obelisco" (dal greco obeliskos, letteralmente spiedino), viene impiegato anche
quello di spada (in italiano, nella stessa accezione dell'arma in uso nel Medioevo, analogamente al termine
impiegato in inglese, dagger, che significa propriamente daga e, per estensione, pugnale).
Si diffuse con il Cristianesimo, essendo comunemente impiegato nei salteri ad indicare una pausa nel canto
dei salmi, minore di quella segnalata dall'asterisco.
Con la diffusione della stampa, tuttavia, cominciò ad essere utilizzato nella medesima funzione attualmente
svolta soprattutto dall'asterisco, come forma di richiamo a note a piè di pagina.
L'impiego dell'obelisco in tale funzione permane nei testi in cui v'è necessità di organizzare in modo
particolarmente strutturato, oppure per designare la data di morte di un personaggio o, ancora, per designare
l'estinzione di un fenomeno (ad esempio di una lingua), istituzione, uso, oggetto e simili.
grado ( ° )
Da posizionare come apice su di un numero.
Gli impieghi di questo carattere tipografico sono principalmente tre:
• nella lingua italiana, il simbolo di grado è erroneamente usato per trasformare un numero da cardinale
ad ordinale, infatti il simbolo corretto è l'indicatore ordinale: º ;
• in matematica, invece, il simbolo del grado è adoperato per indicare l'ampiezza di un angolo (sia esso
piano, diedro o solido): tutti i valori compresi tra 0° e 360° (lett. zero gradi e trecentosessanta gradi),
cui corrispondono l'angolo nullo e l'angolo giro, sono ammessi;
• nelle scienze naturali, quali ad esempio la chimica e la fisica, il grado indica i valori di temperatura;
è utilizzato nelle varie forme di grado Celsius (°C), grado Fahrenheit (°F), grado Rankine e grado Réaumur
(entrambe simboleggiate da °R).
Non se ne deve fare invece uso nella più importante delle scale termometriche, quella Kelvin, che come
simbolo usa la sola K (e non °K).
indicatore ordinale ( º ) ( ª )
Esempio:
1º primo
2º secondo
3º terzo
...
1ª prima
2ª seconda
3ª terza
cancelletto ( # )
In inglese hash è utilizzato prevalentemente nell'Informatica.
Viene solitamente confuso con il simbolo musicale ? (diesis).
Negli Stati Uniti è anche detto number sign ed è spesso utilizzato al posto del carattere N°.
Indica una posizione numerica: #1 significa number one.
In un indirizzo URL il cancelletto rappresenta l' identificatore di frammento:
i caratteri che seguono il simbolo rappresentano un nome di riferimento per la porzione di codice che deve
essere visualizzata.
Negli scacchi rappresenta lo Scacco matto.
Presente insieme all'asterisco nella tastiera del telefono cellulare, può essere utilizzato per eseguire
comandi sul telefono (ottenere numero IMEI o dati di fabbricazione) nonché per utilizzare i Customer Care
o richiedere servizi specifici all'operatore.
primo (')
Il simbolo del primo ( ' ), del doppio primo ( ? ) e del triplo primo ( ? ) sono usati per indicare diverse
unità di misura e per vari altri scopi in diversi campi della scienza e della linguistica.
Questi simboli non vanno confusi con l'apostrofo, con le virgolette o con l'accento acuto.
Il primo può essere usato nella traslitterazione di alcune lingue, come il russo, per denotare
la palatizzazione.
paragrafo ( § )
Insieme unitario di testo in cui viene svolto tendenzialmente un singolo concetto, composto da uno o più
periodi.
Il paragrafo inizia con l'indentatura e termina con l' "a capo".
Una buona paragrafazione di un testo ne migliora significativamente la comprensibilità e la leggibilità.
piede di mosca ( ¶ )
Antico segno tipografico, derivato dalla C di Capitulum.
Era utilizzato soprattutto nei libri di diritto o nei libri religiosi.
Serviva a segnare un capoverso o un paragrafo oppure per indicare una nota staccata o un rinvio.
simboli monetari ( ¤ ) ( $ ) ( ¢ ) ( £ ) ( ¥ ) ( € )
Il seguente è un elenco di vari simboli usati per le valute:
¤ simbolo generico di valuta, usato soprattutto quando non è disponibile il simbolo corretto;
¢ simbolo del cent, suddivisione del dollaro e di altre valute;
¢ simbolo del colón, usato in Costa Rica e in El Salvador;
$ simbolo di dollaro, usato anche per molte altre valute nelle Americhe, come i pesos, e in precedenza come
cifrão per l'escudo portoghese;
€ simbolo dell'euro, usato negli Stati dell'Unione europea che aderiscono alla moneta unica (Eurozona);
usato anche in qualche piccolo Stato europeo che non fa parte dell'UE, e nelle regioni del Kosovo e del
Montenegro
ƒ simbolo del fiorino (guilder), moneta olandese usata prima dell'introduzione dell'euro; l'uso della f risale
a quando la moneta si chiamava florin, parola rimasta nell'uso italiano;
£ simbolo della lira, usato in precedenza in Italia, San Marino, Città del Vaticano e Malta, ancor oggi talvolta
in Turchia
M simbolo storico del marco tedesco, non utilizzato per il Bundesmark recente;
P simbolo della peseta, usato prima dell'euro in Spagna e Andorra ma scarsamente utilizzato, dato che molti
preferivano scrivere Pt. e Pts.;
£ simbolo della lira sterlina usata nel Regno Unito e nei suoi possedimenti ed ex possedimenti
¥ simbolo usato in Giappone per lo yen e in Cina per il renmimbi yuan.
tilde ( ~ )
Segno diacritico (aggiunto ad una lettera per modificarne la pronuncia o per distinguere il significato di parole
simili) appartenente, tra gli altri, al sistema ortografico castigliano.
Tale grafema ( ' o ~ ) della lingua castigliana è utilizzato in diversi modi:
• rappresenta l'accento grafico;
• evidenzia il valore nasale palatale della lettera ñ (si chiama in questo caso tilde de la ñ, virgulilla
o virgulilla de la ñ).
La parola tilde è di origine spagnola e deriva dal verbo tildar col significato antico di "evidenziare";
a sua volta procede dal latino titulare e titulum ("segno, iscrizione"); tuttavia, in spagnolo, la parola
tilde ha un significato più ampio ed indica, come detto, qualunque segno che si ponga sopra un'abbreviazione
o una lettera per distinguerne la pronuncia o l'accentuazione.
Nel Medioevo, per risparmiare spazio o per evitare ulteriore fatica agli amanuensi, era normale, nelle iscrizioni,
nei manoscritti e negli incunaboli, far uso di abbreviazioni.
Sorsero quindi diversi segni codificati, tra cui la stessa tilde, che nasce come stilizzazione delle lettere m e n;
era sovrapposta alle vocali (es.: suã = suam, tr?or = tremor, icursus = incursus, õnes = omnes, exudo = exundo
etc.), ma poteva anche essere posta sopra alcune consonanti o in abbreviazioni più complesse
(es.: dña = domina).
L' origine della palatalizzazione delle consonanti è ancora abbastanza chiara in alcune lingue iberiche come
lo spagnolo, il portoghese o il galiziano; si prenda ad esempio la parola latina domina, la cui contrazione
dom'na ha portato a donna in italiano e dueña in spagnolo, tramite la palatalizzazione in /?/ del gruppo nn,
fenomeno diffuso nelle lingue ibero-romanze; lo stesso discorso vale per la parola latina annus ("anno"),
che si evolve nello spagnolo año.
In castigliano, infatti, il grafema ñ rappresenta il fonema /?/ e lo stesso vale per altre lingue che hanno
subito l'influenza dell'ortografia castigliana come il galiziano, l'asturiano, l'aragonese, il basco, il guaranì,
il quechua, il filippino etc.
In portoghese (ma anche in altre lingue come il guaranì o nel francese arcaico) la tilde è invece il segno
diacritico della nasalizzazione della vocale sopra la quale è posta.
Nel portoghese moderno si usa solo sopra a e o ma nella lingua arcaica la si poteva usare anche con le
altre vocali.
Anche in questo caso è facilmente riconoscibile l'origine dell'uso della tilde, ad esempio nella parola latina
manus che in italiano e spagnolo si è evoluta in mano mentre in portoghese è divenuta mão (stessa cosa
con "lana", che in portoghese è lã).
In giapponese la tilde (nami dasshu, trattino ad onda) ha la stessa funzione che ha la lineetta nelle scritture
occidentali, può inoltre essere usata per dividere un titolo dal sottotitolo, a scopo decorativo, oppure al posto
del choon per indicare un allungamento vocalico piuttosto marcato (l'uso è limitato a scritti informali,
ad esempio ai fumetti).
punto sovrascritto ()
macron o trattino alto ( ¯ )
Dal greco makros, che significa "largo", è il segno diacritico ¯ posto sopra una vocale, in origine per indicare
che si tratta di una vocale aperta.
Il segno opposto è il breve ?, usato per indicare una vocale chiusa.
Sono distinzioni usuali nella fonetica.
trattino basso o underscore ( _ )
È un carattere ereditato dalla macchina per scrivere.
Prima della diffusione dei computer e dei programmi di videoscrittura, il trattino basso era l'unico modo per
sottolineare una parola.
Infatti, per creare una sottolineatura, la parola veniva battuta per intero, poi bisognava riportare il carrello
della macchina per scrivere all'inizio della parola stessa e mettere sotto ogni carattere un trattino basso.
In campo informatico è spesso usato al posto dello spazio, soprattutto nel nome dei file, negli indirizzi e-mail
e nei nomi dei siti internet.
Questo perché non tutti i codici accettano una stringa per il nome contenente il carattere "spazio".
Usato come prefisso in un nome di funzione, metodo, variabile o costante indica spesso che esso è riservato
o ad uso interno (ad esempio "_INTERNAL").
Talvolta, nei messaggi inviati ai newsgroup, si usa mettere dei trattini bassi prima e dopo una parola per
porre l'enfasi su di essa (ad esempio: «Secondo me _non_ è così»).
Tale uso deriva da alcuni vecchi programmi di composizione testo che usavano questa convenzione per
indicare un pezzo di testo da sottolineare.
barra verticale o pipe ( | )
Usata come simbolo matematico.
obelo ( ÷ )
numero ( N° )
Ultima modifica 12-08-2011
sillaba, sillabazione
La sillabazione serve per andare a capo alla fine di una riga e spezzare una parola per mancanza
di spazio. In questi casi l'ortografia prevede di spezzare la parola tra una sillaba e l'altra.
La sillaba italiana contiene sempre almeno una vocale.
Se la parola è formata secondo l'ordine consonante-vocale-consonante-vocale, la sillaba
inizia con la consonante e finisce con la vocale. Esempi: te-ne-re, la-vo-ro.
La prima vocale di una parola fa sillaba a sé. Esempi: u-no, E-va, a-la, I-da.
Eccetto le vocali seguite da una doppia consonante uguale. Esempio: asso > as-so.
I gruppi di due consonanti possono essere separati o restare uniti a seconda del caso.
Vanno sempre separati i gruppi di consonanti formati dalle doppie (tt, ss, cq, eccetera).
Esempi: tet-to, pas-so, ac-qua.
Restano insieme gli altri gruppi di consonanti che producono un suono unico, come
ch, gh e gn: che-la, ma-ghi, la-gna.
La s impura resta insieme alla consonante che la segue: re-spi-ro, pre-sto, pe-sca.
Una sillaba deve essere formata in modo che una parola in italiano possa cominciare con essa.
Nessuna parola in italiano comincia con mp o lt o lb e quindi am-pio, mol-to, al-bum.
Quindi l, r, m e n vanno separate dalla consonante che le segue (al-ga, ar-ma, am-bra, an-ta).
Viceversa, un gruppo consonantico che potrebbe trovarsi all'inizio di parola va tenuto insieme.
Per esempio, il gruppo pr può introdurre un vocabolo italiano come prendere; le due consonanti
restano quindi insieme: a-pria-mo.
str e cr possono trovarsi all'inizio di parola: o-stri-ca, o-cra.
I gruppi vocalici devono essere tenuti insieme oppure divisi a seconda del caso, dato che possono
produrre una sola emissione di fiato oppure generarne due distinte:
- vanno tenute insieme le vocali che formano un dittongo; unione di vocali in una sola sillaba,
conservando però suoni ben distinti: Mà-rio, pàu-sa, qui, piò-ve;
l'accento cade sulla seconda vocale: scuò-la, fiù-me.
- vanno però separate le vocali che compongono lo iato; due vocali che fanno parte di due sillabe
diverse: Ma-rì-a, pà-u-ra, cu-i, A-o-sta, pì-o.
l'accento cade sulla prima vocale: mà-e-stro, pò-e-ta.
Stabilire su quale vocale la parola è accentata, perché sarà la vocale accentata a costituire
il nucleo della sillaba.
L'etimo della parola, secondo la maggioranza degli autori, non conta: nella parola subacqueo, sub-
andrebbe dunque diviso: su-bac-queo (Garzanti) o, forse, su-bac-que-o (De Mauro).
Per quanto riguarda la divisione in sillabe di sintagmi con apostrofo (dell'olio, all'amico,
dall'esodo), le fonti non concordano affatto. Le varie soluzioni (ad esempio al-l'amico; all'-amico)
sono giudicate diversamente dai vari autori.
Alcuni sostenevano, soprattutto in passato, che fosse opportuno reintegrare la vocale caduta
(allo - amico).
Ultimamente, pare riaffermarsi una vecchia norma secondo la quale sarebbe lecito andare a capo
dopo l'apostrofo, dunque scrivere all'-amico.
Comunque, nulla vieta di dividere la parola che si trova immediatamente dopo l'apostrofo (all'a-mico).
(wikipedia - ok)
Ultima modifica 17-08-2011
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Luciano Michieletto - Pagina creata il 14-02-2013, modificata il 14-02-2013
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